Le tracce si erano perse quasi subito, non si riusciva a sapere con certezza quale fosse l’effettiva destinazione di quel viaggio, se l’avesse mai raggiunta, se avesse combattuto, se fosse sopravvissuto alla sua avventura.

Agnese non demordeva né lasciava qualcosa d’intentato per ritrovare il figlio. Nel tempo, aveva conosciuto altre madri vittime di esperienze analoghe, con cui era stato facile aprirsi, confrontarsi, aiutarsi vicendevolmente. La costanza di alcune era anche stata premiata, motivo in più per non perdere la speranza.

Finalmente, non era più sola – con suo marito – in quella spasmodica ricerca.

Un giorno, il suo sguardo si era posato su una donna da cui traspariva una profonda tristezza. Le era apparsa tanto diversa da se stessa fisicamente – grandi occhi scuri, folti capelli neri che cadevano morbidi sulle spalle, labbra carnose – quanto affine nei modi: timida e riservata, ma molto determinata.

Aveva avuto l’impressione che anche l’altra la scrutasse da lontano, ma non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi… poi il destino le era venuto incontro. Quello stesso giorno, nel viaggio di ritorno verso casa, si era imbattuta nuovamente in quella figuretta esile – sembrava fluttuare nell’aria, tanto era leggera – che, sentendosi osservata, si era voltata lentamente salutandola con un sorriso.

Avevano proseguito la strada insieme… sembrava si conoscessero da sempre.

Laura era di qualche anno più giovane di lei, aveva un solo figlio che, animato da uno spirito patriottico, aveva deciso di arruolarsi all’età di diciotto anni. I genitori avevano tentato di dissuaderlo, ma non erano riusciti a convincerlo. Dopo qualche tempo, suo marito era stato richiamato alle armi per andare a combattere in Grecia, dove era stato fatto prigioniero. I contatti col figlio si erano interrotti da un po’ di tempo, e i tentativi di avere sue notizie – attraverso la Croce Rossa e le famiglie dei suoi compagni – erano stati vani. Era rimasta sola con sua suocera, una vecchina che si consumava ogni giorno di più e non faceva che piangere e pregare per le sorti del figlio e del nipote.

Tra le due era nata una profonda amicizia; c’era affetto, stima, complicità, un filo sottile che le legava indissolubilmente. Laura aveva trovato in Agnese la sorella che non aveva mai avuto e Agnese, finalmente, qualcuno con cui confidarsi senza il timore di mostrare la sua debolezza, la sua impotenza, la sua fragilità.

Ogni giorno s’incontravano alla Stazione Termini e di lì proseguivano il tragitto insieme, per poi tornarvi al termine della missione quotidiana.

Laura era molto religiosa, e non passava giorno che non si fermasse a pregare nella chiesa di San Silvestro in Capite, adiacente all’ufficio postale. Agnese che non aveva mai mostrato una simile inclinazione, per un po’ si era fermata ad ammirare la piazza, come se non l’avesse vista prima, prestando attenzione a particolari su cui non si era mai realmente soffermata: il portale attraverso il quale si accedeva all’ufficio postale, con le colonnine e l’architrave che lo incorniciavano; l’orologio che, dall’alto dell’edificio, scoccava le ore; le finestre a bifora che davano un tocco di eleganza a quel complesso maestoso.

Il suo sguardo era stato poi attratto dal movimento al centro della piazza, dove i filobus sostavano al termine di una corsa e le carrozze sfilavano, trainate da magnifici cavalli dai manti lucidi e dalle lunghe criniere. Quella scena aveva il potere di riportarla indietro nel tempo, alla sua infanzia, al mondo incantato delle fiabe… affascinata dallo splendore degli splendidi animali e dall’eleganza delle donne trasportate.

Solo in seguito avrebbe iniziato a osservare il campanile romanico che spiccava dietro alla chiesa con le sue arcate a bifora… e, con interesse sempre crescente, la facciata decorata e l’accogliente portale…

Finalmente un giorno, spinta dalla fede dell’amica e dal ricordo di Mario stesso – devoto a Sant’Antonio – Agnese aveva sentito l’impulso di entrare nella basilica. Ne era rimasta affascinata, semplice com’era nella struttura e tanto elaborata nelle finiture. Sembrava che chiunque fosse passato di là, avesse lasciato la sua impronta… tracce sedimentate nel tempo, in un insieme un po’ carico forse, ma tutto sommato armonioso. L’unica navata, le piccole cappelle laterali, la grande volta sopra l’altare… ogni minimo spazio era ricoperto da affreschi barocchi. Un contrasto che evocava secoli di storia, in un’alternanza di ordini monastici – Benedettini, Basiliani, Clarisse – che, prima di lei, avevano trovato in quel luogo di culto lo spazio ideale per congiungersi con Dio.

Istintivamente, si era rivolta a un sacerdote, Padre Libero, cui era riuscita a confessare, nonostante il suo agnosticismo, la propria angoscia: “Padre, è molto tempo che non metto piede in una chiesa… così tanto, da non ricordare neanche quando sia accaduto l’ultima volta. Ed anche ora, ad essere sinceri, non l’ho fatto perché sono convinta, ma per disperazione… ho molte perplessità. Mi risulta difficile pensare che un padre possa infliggere pene così pesanti alle proprie creature… è da tempo che mi sono imposta di non credere, altrimenti dovrei pensare ad un essere crudele e vendicativo… ben diverso dall’immagine del Dio misericordioso che da bambina hanno provato a trasmettermi.  

Sono disperata! Cos’ho fatto per meritare tanta sofferenza? Perché privarmi del bene più prezioso per una madre… di mio figlio?

E’ partito da quasi cinque anni e la sua assenza – specialmente da quando è scoppiata questa guerra maledetta – il non sapere se sia vivo o no, mi sta consumando. Non faccio che pensare a lui, chiedermi dove sia, cosa ne sia stato. Vivo nel terrore che gli sia accaduto qualcosa, che sia rimasto mutilato o cieco… … no, cieco no!… non lo sopporterei… lui non lo accetterebbe mai… ama troppo leggere, e non potrebbe più apprezzare i colori della natura, gioire del sorriso di chi ama… no! sarebbe un dolore atroce, ne soffrirebbe troppo!

Per consolarmi, mi dico che potrebbe aver perso temporaneamente la memoria, ma è solo un sollievo momentaneo. A volte credo di impazzire, sento una forte rabbia salirmi dentro, avrei voglia di urlare, di distruggere tutto. Non mi riconosco più, ho paura di me stessa, e non sempre mi sento padrona delle mie reazioni. Il mio cuore sembra essersi rimpicciolito, pare non ci sia posto più per nulla; mi sono inaridita, non riesco a dare l’amore che vorrei e mi sento in colpa nei confronti di chi non me l’ha mai negato – mio marito, gli altri miei figli – ma sono impotente, il mio pensiero è sempre altrove… sempre con Mario”.

Padre Libero, dopo averla ascoltata con attenzione, le aveva risposto con dolcezza: “Mia cara, tu soffri molto di più di altri, perché non credi… se avessi fede, Dio ti aiuterebbe ad alleviare il tuo dolore, ad accettare la tua sofferenza, a ritrovare te stessa”.

Le aveva ispirato fiducia, era così diverso da altri sacerdoti conosciuti nella sua vita. La decisione di prendere i voti era arrivata piuttosto in là negli anni, dopo essere stato profondamente segnato dagli orrori della prima grande guerra. Si era ritrovato a combattere suo malgrado e, proprio in quel frangente, si era ripromesso che se fosse stato risparmiato avrebbe dedicato il resto della sua vita ad aiutare il prossimo.

E così era stato, non si era mai smentito. Erano ancora in molti a trovare protezione, aiuto morale e perfino asilo politico nella sua parrocchia.

 

Agnese si era sentita confortata dalle sue parole e per la prima volta, dopo anni, si era riconciliata con Dio, offrendogli la sua vita in cambio di quella del figlio. Aveva continuato a pregare ogni giorno, intrattenendosi spesso con quel prete illuminato e con la sua amica Laura.