La “dimensione favolistica” è il rimedio primario alla intransigenza ineluttabile della realtà.
Che non significa il rifiuto del concreto ma la contrapposizione, chiarissima e consapevole, di un parallelo possibile ed inedito.
Altrimenti parleremmo di inganno cognitivo premeditato. Una trappola psicologica.
Dunque la “dimensione favolistica” non cancella la realtà.
Che pur sempre rimane palese allo sguardo del mondo. Nè la sostituisce con altro.
Semplicemente la rielabora su parametri più accettabili e, spesso, meno dolorosi.
Potremmo definirla anche come un “costruttivismo riferito al mondo interiore”.
Un dettame cognitivo, mediante il quale siamo in grado di rielaborare, senza però strutturalmente alterare, la nostra immagine.

Ho raccontato, nella pagina precedente del mio diario, di un principio, benché minimo, di artrosi deformante, per altro ancora molto blanda, a cui le mie mani potrebbero essere soggette.
Ora sono perfettamente consapevole che non è un problema fisico grave.
Ma a livello psicologico… bè lo è.
Il lavoro ha indurito le mie mani.
Ed incallito i palmi.
Reso ancor più fragili le unghie.
Il lavoro delle pulizie inevitabilmente sciupa le mani.
In costante contatto con l’acqua ed i detersivi.
Inmpastoiate nel trasudo della gomma dei guanti.
Una trappola acquitrinosa.
Una sofferenza da mondina.
Ed ora anche questa bruttura deformante.
Che sicuramente col tempo forse svilupperà ancora più evidente.
Ho tentato con tecniche empiriche, puerili e disperate, una correzione delle falangi ingobbite.
Tenendole in tiro. Premendo sull’osso. Traumatizzandole con esercizi di ginnastica da circo.
Ostinati, i miei mignoli, rifiutano l’allineamento.
Ho esplorato allora rimedi alternativi. Consolatori. Eccentrici.
Guanti di pizzo e di raso.
Evidentissimi.
Non per nascondere ma per risaltare.
Trasfomare il difetto in un vezzo.
Creare uno stile.
Ancor di più: rendere glamour l’artrite deformante.
Ma le mie dita sono crudamente evidenti a me stessa, e l’inganno strategico dei guanti cessa subitaneo al denudamento delle mani.
Ho tentato, quindi, l’accettazione coercitiva.
Col risultato di un rigetto ancora più estremo.
Troppo forte il mio rancore femminile.
Per queste mani plebee.
Mani di strega. Artigli d’aquila.
Ed ecco, provvidenzialmente, materializzati i codici d’accesso alla “dimensione favolistica”.
Le mie dita sono quelle di una strega.
E sono gli artigli dell’aquila.
Tenaci. Incorruttibili.
Ricurve. Per scalfire la terra.
E graffiare il cielo.
O incidere la schiena di un amante.
E lasciare strie indelebili del mio passaggio.
Monogramma del mio potere esclusivo sugli elementi del mondo geografico.
E su quello umano.