Dal cassetto fuoriesce, come la mano di un fantasma, un guanto di pizzo bianco.
Un guanto da prima comunione.
Che, seppur impalpabile nella sua effimera trama di ragno, si disegna nitido sullo scuro del legno.
Se ne sta aggrappato sul bordo, sporgendo come da un davanzale.
Una mano avvinghiata, per non precipitare nel vuoto.
Sulle cui dita, più marcato, è l’ingiallimento dell’incuria del tempo.
All’interno del palmo la trama è consunta, sfilacciata, ingarbuglia le geometrie del pizzo.
Una reliquia riemersa da un buio remoto.
Conservata in quel cassetto assieme ad un libricino da messa.
Un rosario di madreperla.
Uno scapolare.
Ed una treccia polverosa.
Pronta a disfarsi nel respiro dell’aria.

Madeleine correva ignara verso quello che le sembrava un futuro di albe consecutive.
Dove la notte era solo il tempo dei sogni e del riposo.
E non quello buio dell’eternità.
Non risvegliarsi da quel buio è stato, per lei, l’inganno più crudele.

Nel sonno da cui non si è più ridestata, Madeleine, giace pallida nello sfarzo di un vestito di trine.
Una treccia sottile le scende su una spalla.
E s’arricciola sotto il nastro, come un muto punto interrogativo.
E le sue mani… le sue piccole mani strette a pugno rifiutano quei guanti da sposa.
Lei che mai sposa sarà.
E solo una si riesce a vestirne, con infinita cautela, che le dita potrebbero spezzarsi.
Quelle dita di bambina fatte per giocare con la sabbia e con la spuma del mare.
Per intrigarsi nei capelli di una bambola.
Per impiastricciarsi di crema e cioccolata.
E scrivere sui quaderni della scuola.
Quelle dita che sono fatte per queste ed altre meraviglie.
Quelle dita che non vogliono essere imprigionate in quei guanti di merletto.