Judy Garland. Dorothy. Sarai sempre chi ci manda oltre l’arcobaleno con due note. Non abbiamo bisogno di sapere quanto hai sofferto, non abbiamo bisogno di sapere niente. Il tuo dono era il talento, non la sofferenza. Ma una storia ha bisogno di dramma, lo capiresti tu per prima, anche meglio di noi. Per quello che vale, dimenticherò questo film appena possibile e tornerò ad ammirarti lungo il sentiero di mattoni gialli, per sempre.

Judy di Rupert Good è l’ennesimo scontato biopic col quale Hollywood prova a mostrare di avere un’anima omaggiando una delle sue più grandi star, pulendosi una coscienza che non è mai esistita, facendo finta di fare ammenda per come è andata la vicenda umana della Garland. E mentre Renée Zellweger prenderà l’Oscar perchè sa fare le imitazioni, l’Academy si pulirà le scarpe sulla memoria di Judy Garland, con l’ennesima miserabile autocelebrazione.

Hollywood che racconta se stessa in questo modo paternalistico è insopportabile al di là di ogni merito artistico del film, ma è un mio problema personale con questo genere di film fatti in fotocopia: si inizia dalla triste fine, si torna col flashback agli sfolgoranti inizi, si punta il dito sui meccanismi stritolanti che uccidono l’anima dell’artista, si mostra la resilienza del talento che resiste oltre ogni umiliazione, si mette in scena qualche episodio famoso, si chiude sul riscatto e i cartelli finali prima dei titoli di coda…quanti ne abbiamo visti? Quanti ne dobbiamo ancora vedere?

Non penso si possa essere più autoreferenziali di così, non c’è alcun valore in questo genere di opere. I costumi, il trucco, le interpretazioni: è solo una catena di montaggio, che cosa abbiamo ancora da vedere di nuovo? Basta andare su youtube: qualunque attore di medio talento sa imitare alla perfezione chiunque altro, senza bisogno di trucco e dramma. Jim Carrey ci ha costruito una carriera, le imitazioni di Al Pacino e De Niro si sprecano.

Perché raccontare solo la sofferenza, il declino? Perché non celebrare il talento invece dell’umiliazione? Perché non c’è interesse nel dramma nell’ascesa, che si ripaga da solo, perché a nessuno interessa il successo altrui, o almeno non più della caduta, che porta i conti in pareggio. Hollywood continua a prosperare raccontando in questo modo osceno quanto sforzo e dolore ci sia dietro il privilegio, centellinando questi biopic uno ogni paio d’anni: umanizzando le star trasformate in personaggi (che già sarebbe un paradosso), non fa altro che autoaccusarsi ipocritamente, sostituendosi alla coscienza collettiva e neutralizzandola preventivamente: “povera Judy, povera Marylin, poveri Laurel & Hardy, come vi abbiamo trattati male, ma ora con questo film è tutto a posto, abbiamo capito, amici come prima”.

Mi viene in mente l’interpretazione di Pierfrancesco Favino in Hammamet, film decisamente diverso: trucco perfetto, da Oscar, e interpretazione incredibile – non c’è bisogno di Hollywood per questo. Non è l’imitazione di Craxi (Favino, essendo un grande attore, sa imitare chiunque…è la base, e non è recitare, è solo osservazione), ma sono la trasformazione in un uomo di un’altra età, di un’altra categoria, di un altro tempo, a lasciare senza parole. È palese il lavoro, lo sforzo, il salto che Favino ha dovuto fare, non di mestiere, ma di testa.

La Zellweger interpreta qualcosa che conosce benissimo, con tutti i trucchi della recitazione hollywoodiana. Dove sta il valore di questo genere di lavoro? Che poi lo stesso ambiente dove lavora e dove lavorava la Garland si autopremierà consegnandole premi a raffica? Che sulla lista delle star distrutte dalla macchina dello show business, ma celebrate con film ultrapremiati, ora possiamo mettere la spunta vicino al nome della Garland e passare alla prossima?

Già che ci siamo, diamo pure un colpo al cerchio del movimento #metoo rappresentando tutte le figure maschili come abusatori senza scrupoli, tanto per essere sicuri dell’Oscar, in caso Meryl Streep se ne uscisse con qualche asso nella manica.

A volte penso che anche il declino umano e professionale di certe grandi star sia studiato a tavolino appositamente per farle diventare, da morte, materiale da sceneggiatura. Un ultimo sfruttamento del talento, un compostaggio umano, una macabra ricollocazione professionale: “Abbiamo un’ottima opportunità per te: no, non devi più recitare, ma puoi diventare uno script, puoi diventare persino il titolo di un film, sarai personaggio e non attore. Dovresti solo passare gli ultimi anni della tua vita professionale solo e triste, abbandonato e in miseria, se possibile, al resto pensiamo noi dopo”.

Judy è un tipico film per americani, che amano ricostruire il proprio mito sostituendo la riflessione con l’emozione e raccontarsi balle a vicenda, restando sempre superficiali. Non c’è bisogno di andare oltre, di grattare davvero il primo strato, tanto una riflessione più profonda non avrebbe effetti migliori. Né incassi più alti.

Perdonali, Judy, non hanno mai saputo cosa stessero facendo e questo film lo dimostra ancora una volta.