Jojo Rabbit di Taika Waititi è candidato a sei premi Oscar e per me dovrebbe vincerli tutti, se c’è una giustizia in questo mondo: Miglior Film (va bene, questo potrei anche vederlo assegnato a Marriage Story o Piccole Donne), Miglior attrice non protagonista (Scarlett quest’anno lo merita, ha due nomination), Miglior sceneggiatura non originale, Migliori Costumi, Miglior Scenografia e Miglior Montaggio.

Fosse per me, istituirei anche le seguenti categorie, appositamente per premiare Jojo Rabbit: “Miglior utilizzo di sempre di una canzone dei Beatles” (la versione tedesca di I Want to Hold Your Hand, su un montaggio di immagini di propaganda nazista, strepitosa, come il resto della Colonna Sonora, d’altro canto), “Miglior bambino grassottello” (Archie Yates, fantastico), “Miglior finale” (se non vi strappa un sorriso questo…), “Miglior momento che ti arriva come un pugno allo stomaco”, “Migliori citazioni” (ci ho visto almeno E.T. e Il Grande Dittatore).

Taika Waititi se la cava alla grande su un terreno davvero scomodo, dove solo alcuni grandissimi, come Chaplin e Benigni, sono riusciti: il racconto dell’orrore nazista attraverso la lente della commedia, della parodia che non stempera, ma sottolinea con ancor maggior efficacia la follia della Seconda Guerra Mondiale. Come ne La Vita è Bella, il punto di vista è quello di un bambino, anche se in questo caso il piccolo Jojo è un entusiasta quanto impacciato membro della gioventù hitleriana (al punto da avere come amico immaginario proprio il Fuhrer, interpretato dallo stesso Taika Waititi con effetti spesso esilaranti).

Jojo Rabbit sembra a tratti un film di Wes Anderson, a tratti un film dei Monty Python: un mix vincente di idee registiche (la corsa in ospedale in soggettiva), follie narrative,  e cura dei dettagli (il poster che cambia faccia è eccezionale, così come i bambini clonati), senza dimenticare di dare un senso a una storia che in fondo racconta ancora una ferita che non si potrà sanare mai – e quando arriva il colpo, arriva con una violenza ancora più deflagrante, proprio perché inatteso, preparato benissimo e messo in scena in maniera estremamente efficace.

Non bisogna però ingannarsi: Jojo Rabbit non è un film sul nazismo, ma sul suo contrario, sulla complessità e la ricchezza della diversità che ci lega come esseri umani e ci fa maturare come individui. Seppur raccontato in maniera estremamente efficace, il contesto del nazismo è solo una (folle, ma totalmente azzeccata) metafora per un mondo fatto di principi assoluti destinati a infrangersi contro la realtà: Taika Waititi racconta la storia del trauma della fine dell’infanzia e della protezione dei genitori che lasciano il posto ai dubbi e le contraddizioni dell’adolescenza.

Se si finisce questo film con il sorriso non è solo per i numerosi momenti di comicità, ma soprattutto per lo spirito e la delicatezza con cui viene raccontato il rapporto tra Jojo ed Elsa, la ragazza ebrea che Jojo scopre essere nascosta in casa, e come questo sopravviva a ogni orrore, consentendo ai due ragazzi di guardare avanti con un po’ di speranza.

Il mondo di Jojo viene completamente sconvolto nel momento in cui è costretto ad affrontare il concetto della diversità: Elsa è ebrea e non solo è ben diversa dai mostri raccontati dagli educatori nazisti, ma soprattutto è una bella ragazza più grande, la cosa più spaventosa possibile per un bambino alle soglie dell’adolescenza (a pensarci, anche dopo…).

Il film è diviso abbastanza nettamente in due parti, la prima certamente più leggera, in cui il tono canzonatorio prevale sul resto e tutta la propaganda nazista viene messa continuamente in ridicolo, la seconda più drammatica, con la presa di coscienza di Jojo rispetto all’orrore della guerra e del nazismo. L’interpretazione del piccolo Roman Griffin Davis lega le due parti del film: alla paura per l’inadeguatezza al suo ruolo di nazista si sostituisce la paura per l’incolumità dei propri cari e per il futuro, ma la sua tenera risolutezza lo guida anche nei momenti più drammatici.

Scarlett Johansson sta iniziando a esprimersi su livelli davvero alti, in ruoli più delicati e sfumati (non saprei scegliere se premiarla per Jojo Rabbit o Marriage Story). Convincente anche Sam Rockwell, certamente in un ruolo che gli si addice, meno Rebel Wilson che sembra sempre troppo sopra le righe. L’Hitler di Taika Waititi sembra spesso più il Grande Dittatore di Chaplin che il vero Fuhrer, ma riesce comunque ad essere una convincente proiezione mentale di un bambino di dieci anni, che da figura paterna e incoraggiante diventa espressione di dubbio e rabbia.

Taika Waititi conferma di essere in un momento di grazia e dopo Thor Ragnarok (il più originale e divertente dei film del Marvel Cinematic Universe) porta una ventata di aria fresca in un cinema sempre più uguale a se stesso. Da vedere possibilmente in originale per gustarsi le interpretazioni degli attori: il doppiaggio italiano, seppur non pessimo, come al solito appiattisce troppo, basta paragonare i trailer nelle due lingue.