«L’illuminazione mi è giunta improvvisa leggendo un’intervista fatta per Commonweal da Patricia Marx e John Simon, con il titolo Reality Is Perplexing Enough. Nell’intervista, ampia e molto ben strutturata, i due giornalisti chiedevano a Borges le sue opinioni sul mondo e sull’Universo, cioè su tutto, come d’uso. Borges rispondeva con garbo e arguzia, da grande scrittore conclamato che poteva pontificare fingendo umiltà (Domanda: Nel suo lavoro non compare quasi mai il sesso, perché? Risposta: Forse perché ci penso troppo) ma non mi interessa il contenuto della lunga intervista, peraltro godibile, (diciottomila caratteri, mica briciole), quanto piuttosto quella domanda, gettata quasi per celia:
CW: Forse in una reincarnazione non le spiacerebbe essere un lettore di Borges…
JLB: Beh, spero in un futuro letterario migliore…
La modestia del Maestro, vero? Ma lasciamo stare.
È stato proprio in quel momento che mi si è squarciato un velo nella mente, che il mondo si è rovesciato, che ogni cosa è diventata trasparente, insomma, quello che i monaci zen chiamano illuminazione: ecco chi ero veramente, Jorge Luis Borges incarnato!».
La coppia di giornalisti rimase sorpresa da questa mia apertura. Certamente si erano aspettati un approccio più cauto, un giocare intorno alla questione, invece gli avevo sbattuto in faccia i fatti nudi e crudi. Anche se, lo ammetto, non era tanto facile crederci.
Lei abbozzò un sorriso, sfogliando il suo taccuino come per riordinarlo, in realtà cercando di prendere tempo. Lui non nascose la sua ostilità.
«Vuol dire, signor Angel Flores, che lei ritiene di essere l’incarnazione di Jorge Luis Borges? Sul serio?».
Ero preparato a questo genere di reazione:
«Intanto precisiamo: io non mi chiamo veramente Angel Flores» dissi, aspettando la sua interruzione.
«Ah no?».Stavolta era veramente interdetto.
«No. Angel Flores è stato un critico letterario, il primo che abbia inventato la formula “realismo magico” per definire il movimento nato a partire dal mio “Historia universal de la infamia”.
«Suo?» mi interruppe ancora lui.
«Di Borges. Mio».
«Mi spieghi questa cosa».
Tirai un lungo respiro.
«Non posso spiegarla, ovviamente. Quante cose esistono e non si possono spiegare? Quante cose non esistono e si cerca di spiegare, anzi, si è convinti di riuscirci, come l’esistenza di Dio? L’Universo è pieno di cose che non sappiamo spiegare, eppure non possiamo fare altro che ammirarne l’infinità».
«Tuttavia» intervenne la donna, che sembrava essersi ripresa «converrà che spetta a chi formula la tesi fornire la dimostrazione, o quantomeno le prove. Se io sostenessi che gli extraterrestri esistono o che l’araba fenice vive in Arabia dovrei cercare di dimostrarlo, le pare?».
«Dove dovrebbe vivere l’araba fenice se non in Arabia?» ribattei io, felice di vederla sconcertata. «Nella realtà, cara signora, non funziona proprio così. Ritornando all’esempio di Dio è opinione comune sostenere che siccome non si può dimostrare né la sua esistenza né la sua non esistenza bisogna sospendere il giudizio».
«Adesso si paragona addirittura a Dio?» disse lei.
Risi.
«Non risponda con battuta a battuta, qui nessuno si paragona a Dio o a nessun altro. Dico solo che sono l’incarnazione di Jorge Luis Borges, tutto qui».
«Ma a prescindere da tutto questo, come spiega che Borges, morto nel 1986, si sia incarnato in lei che è nato trent’anni prima?».
Questa era una domanda acuta.
«È la prima cosa che mi sono chiesto quando ho capito chi ero” risposi, questa volta serio “ma la verità è che non lo so: posso immaginare che la personalità di Borges abbia soppiantato quella che esisteva prima in me, e dal 1986 sono riuscito a capirlo solo oggi».
I due confabularono un attimo.
«Signor Flores – o come si chiama – lei in questi anni ha scritto una certa quantità di racconti: come mai soltanto oggi ha avuto successo?» chiese ancora lei.
Adesso erano sul mio campo. Allargai le braccia:
«Non lo so. Lo stesso Borges in quell’intervista ammetteva di aver venduto 37 copie – forse meno – del suo primo libro. Io immagino che è stato soltanto da quando ho avuto la consapevolezza di essere chi sono che ho sviluppato quella capacità magnetica di scrivere che mi ha fatto immediatamente ottenere il successo».
«La modestia non è il suo forte…».
«Sono realista: il mio successo è certificato dalle vendite e dalle critiche. D’altra parte sono troppo vecchio per rincorrere il pubblico».
L’intervista si stava avviando verso la fine.
«Ancora una cosa» chiese l’uomo, deponendo il taccuino «non ci ha ancora spiegato come pensa che si sia verificato tutto questo».
«Non ve l’ho spiegato perché nella fretta di confutarmi non me l’avete chiesto».
«Glielo chiediamo ora».
«Bene». Mi sporsi in avanti, verso di loro. «Io ho una mia opinione su questo. Una possibilità è che tutto questo non esista, che sia una illusione mia o vostra, un sogno o un incubo…».
«Addirittura?».
«Certo» risposi, unendo le mani, come in preghiera «un’altra possibilità è che la mia presa di coscienza abbia aperto una linea di confine – altrimenti imperscrutabile . su un labirinto infinito di realtà in cui ci siamo persi e da cui mai riusciremo ad uscirne…».
Adesso i due mi guardavano con una sorta di inquietudine.
«Una terza possibilità» dissi infine, sorridendo, «è che l’intervista di Patricia Marx e John Simon non sia mai esistita e che tutti noi stiamo vivendo nel sogno di qualcuno, forse Borges stesso, e quando lui si sveglierà noi scompariremo nel suo presente: sapete di quali malignità fosse capace il vecchio Jorge? Aspettate che vi racconto qualche aneddoto…».
La sera era scesa su Buenos Aires. Le vetrate colorate de Las Violetas lasciavano trasparire la luce dei lampioni mentre per rabbonire i miei due interlocutori versavo loro una tazza di tè e il cameriere portava un vassoio di masas finas. Per lo champagne si poteva aspettare, tra poco sarebbe arrivato il mio amico Macedonio Fernández ad aiutarmi. Il difficile non era tanto fare credere a quei due che ero veramente Jorge Luis Borges, il difficile sarebbe stato convincerli che eravamo nel 1950.