La mattina è iniziata lenta. Un risveglio solitario e sudaticcio perché mi ostino ancora a tenere il piumone… che non si sa mai torni il freddo.

Sento mio marito, che tenta il rientro dal suo viaggio di lavoro a Parigi su un pullman rimediato: gli aeroporti sono chiusi un po’ ovunque in questi giorni a causa delle eruzioni del vulcano islandese dal nome impronunciabile.

Da pronostico Antonio avrebbe dovuto essere già a casa intorno alla mattinata, invece si trova ancora in quel di Parma… “Ma avete sbagliato strada?” gli chiedo. Mi risponde con una fragorosa risata isterica che pian piano si dilaga, lo sento chiaramente, tra tutti i suoi esausti compagni di viaggio.

Mi ritorna allora in mente il viaggio verso Briatico, in Calabria, nell’estate seguente il mio esame di maturità, era il 1997. Fu un vero dramma. Era periodo di scioperi e deragliamenti ferroviari.

Non so se qualcuno di voi ricorda quel periodo: il telegiornale non faceva altro che parlare di treni. Ho poi capito che è una tecnica ben precisa quella di cavalcare l’onda nella società dell’informazione, i notiziari seguono delle vere e proprie mode, e ti rifilano solo quanto in un determinato frangente ha più speranza di far notizia, ma sto divagando come al solito…

Io dovevo assolutamente raggiungere la meta delle mie agognate vacanze, a costo di arrivarci in calesse. Col senno di poi mi viene da pensare che forse avrei fatto prima.

Un deragliamento avvenuto da poco comportó la soppressione di diverse corse, la mia però alla fine partì ugualmente, con tre ore di ritardo. Era luglio e il treno, che moriva in Sicilia, era pieno come un uovo di vacanzieri e persone del sud che facevano rientro nei luoghi delle loro origini. L’aria condizionata come è ovvio non funzionava. Io ero fortunata, avevo il mio posto a sedere, ma in tantissimi si erano sistemati nei sudici corridoi.

I telegiornali parlarono del mio come del “treno fantasma”, perché tutti gli altri, essendo lui “inaspettato” – mah? – , avevano la precedenza, costringendoci a soste prolungate e cambi di rotta.

Ricordo una porta automatica rotta che si apriva e chiudeva, si apriva e chiudeva, siaprivachiudeva!! Solo una suorina di passaggio, con un tocco leggero, per due e tre volte riuscì a fermarla dando una breve tregua ai nostri cervelli (miracolo…).

Ci abbiamo messo 24 ore per raggiungere la stazione di Vibo Valentia, e non avevamo neanche acqua a sufficienza, né cibo. Abbiamo percorso l’Italia intera esattamente a zig zag.

Le situazioni estreme riescono a rivelare dei lati insospettabili delle persone. Io in quel caso volevo piangere, ricordo solo questo. Mi ero abbandonata sulla mia poltrona come un cavallo azzoppato in attesa del colpo di grazia. Non mi era facile riconoscere me stessa, mi stupii. Mi sarei lasciata morire lì, sul marrone sbiadito di quel sedile con il quale ero entrata in simbiosi, se non fosse stato per le parole di incoraggiamento del mio ragazzo dell’epoca e per i cicchetti offerti da un nonnino siciliano che decise di sacrificare le scorte di cibo e abbeveraggi sapientemente incartati, in origine destinati ad essere dono per i suoi parenti palermitani.

Ricordo randomicamente fermate in stazioni insospettabili: Tagliacozzo, Ariano irpino, Foggia… ma coma caxxo abbiamo fatto a finire a Foggia mi chiedo io?!!

Arrivammo a Vibo Valentia alle 4 di mattina del giorno successivo.

Non so se avete presente la stazione di Vibo alle 4 di mattina… Era il deserto, quasi surreale. Arrivare finalmente a destinazione e trovare una scena post-atomica era proprio quel che mi ci voleva.

A quel punto individuai una panchina, avrei potuto dormire lì e aspettare il giorno. Sarebbe stato molto più gradevole – certo! – farsi venire a prendere dagli amici che avevano già raggiunto il luogo della nostra vacanza da alcuni giorni… purtroppo non c’erano ancora molti cellulari all’epoca, nel nostro caso uno i nostri amici in realtà lo avevano, ma pensarono giustamente di spegnerlo!

Anche in questo caso il mio ragazzo fu più audace e pronto, e rimediò un passaggio da uno dei nostri compagni di avventura, un poliziotto, che aveva amici meno sconsiderati dei nostri.

Arrivammo finalmente davanti al complesso destinato ad ospitate le nostre vacanze post maturità. Un cancello chiuso e altissimo si poneva ai mei occhi come ultimo affronto verso la mia vacillante salute psicofisica. Lo scavalcai. Di netto.
Il giorno dopo rivendendolo non mi capacitavo dell’impresa, eppure lo feci.

La famiglia cuore (genitori e due bambini perfetti, puliti e sorridenti) che andava al mare alle 5.30 ci aiutò ad individuare l’appartamento in cui risiedevano “dei ragazzi romani”, che evidentemente si erano già fatti riconoscere….

Trovammo i nostri previdenti amici beatamente dormienti e ignari del fatto che nelle ultime 24 ore io a più riprese avevo pensato di lasciarmi morire, appena maggiorenne, praticamente in ogni località italiana.