Tanto tempo fa, in un paese sconosciuto, c’era un piccolo villaggio incantato.
Spuntava in mezzo al bosco, a metà di una collina, grazioso e solitario come un magico presepe.
Le case, in pietra antica, erano concentrate intorno alla grande chiesa e manifestavano la rovina del tempo; la maggior parte di loro era disabitata e destinata come rifugio per animali da cortile o come magazzini per fieno e attrezzi da lavoro o per altri usi.
C’erano tre fontane in pietra: una per lavare i panni, l’altra per prendere l’acqua da cucinare e bere e una per abbeverare le mucche.
L’acqua scorreva ininterrottamente, fredda come il ghiaccio.
Solo cinque famiglie di umani abitavano in quel piccolo nucleo di case, lontano dalla civiltà e dai rumori della città come fosse parte di una solitaria oasi felice.
In mezzo a tanta pace e bellezza, i veri protagonisti, erano gli animali da cortile!
«Chicchirichì», cantò il Gallo Ricchi mentre alcune galline petulanti beccavano tra le pietre e l’erba in cerca di cibo.
Gallo Ricchi aveva un piumaggio colorato ed elegante come un re e ne andava orgoglioso. In quel momento, era appollaiato su un basso e consumato muretto di pietre, al bordo del cortile e diede l’allarme:
«Venite qua, non sapete che cosa è successo questa notte nell’aia del vicino?».
Arrivarono correndo e starnazzando alcune giovani pollastre:
«Che c’è, Ricchi, come mai sei così agitato?».
«Una faina ha fatto razzia nel pollaio del vicino, lo diceva Elisio questa mattina all’alba al nostro padrone» e due oche che camminavano dondolandosi come due comari affaccendate e chiacchierone, si avvicinarono talmente impaurite che spaventarono alcuni timidi conigli e li fecero scomparire veloci nel loro nascondiglio.
«Quaquaraqua, che succedete?», le oche chiesero.
Poco distante, sopra un cavo, c’era una fila di rondini che garrivano liete; sembravano piccole monache impegnate a cantare una lode a Dio.
Spaventate dal parapiglia degli animali del cortile, come a un segnale, si misero a volteggiare tutte insieme nel cielo azzurro come aquiloni bicolori:
«Grrrr, grrrr che c’è?», garrì il capo gruppo lanciando il suo caratteristico grido.
Persino Falco Solitario, che volava alto in cerca di prede, calò giù in picchiata per sentire.
«Poldo, vieni qua», gridò ancora Ricchi sempre più agitato.
Poldo, il cane da pastore, vecchio e barcollante, anche un pochino sordo, arrivò mezzo addormentato, muovendo lentamente le sue lunghe orecchie penzolanti:
«Che cos’è tutto questo frastuono?», sentenziò con la sua profonda voce da baritono mentre osservava gli animali con il suo dolcissimo sguardo da cane buono.
L’arrivo del suo vecchio padrone Peppino e dei loro vicini lo bloccò e rimase scioccato quando vide Armando, il figlio di Gesualdo che imbracciava un fucile.
«Allora siamo d’accordo», sentenziò Cecco, il capo del villaggio, «oggi battuta di caccia, non torneremo finché non l’avremo scovata, la bestiaccia maledetta!».
Mariuccia, la moglie di Peppino gli infilò nello zaino un grosso panino e una borraccia, scrollò la testa contrariata e gli umani partirono decisi.
Prima di andare, Peppino si rivolse a Poldo e gli ordinò:
«Fai bene la guardia e bada alle mucche!»
Dalla stalla si udì Nerina che con un lungo muggito protestò:
«Muuuuuu, ehi, vi siete dimenticati di noi?» «Niente mungitura?» «Vogliamo uscire», muggirono le altre in coro, accompagnate dai belati delle pecore poco distanti.
Mariuccia arrivò con un secchio e iniziò la mungitura, con pazienza, sapienza e garbo mentre si rivolgeva a Poldo:
«Caro, tra poco dovrai portarle al pascolo, queste pettegole, oggi è così, dobbiamo arrangiarci».
Più tardi, le mucche uscirono in fila indiana e seguirono Nerina di buon grado; si abbeverarono a turno alla fontana e proseguirono giù per la vallata.
Fu poi il turno delle pecore, che seguirono Testa Dura, il caprone e passarono davanti a Poldo che le contò una a una.
«Bauuuu, via, più veloce», urlò Poldo rivolto a Nerina che scrollò la grande testa e fece suonare il campaccio in segno di aver capito.
Il resto della giornata trascorse abbastanza tranquillo se non contiamo i bisticci scaturiti tra Poldo e Ricchi che si pizzicarono in continuazione su chi fosse o non fosse il capo della situazione.
Le donne del villaggio, rimaste sole con gli animali, erano impegnate nelle loro mille faccende quotidiane ma riuscirono a scambiare due parole mentre facevano il bucato alla fontana lavatoio.
Zeffirina e Rachele erano le più giovani e si sentirono in dovere di dare una mano a Viviana, Luciana e Mariuccia che erano le più anziane.
Quello di aiutarsi l’un l’altro era una legge antica del villaggio che gli umani e gli animali avevano da secoli stabilito e tramandato.
La sera, le cinque comari si sedettero stanche sui gradini davanti alla chiesa ad aspettare l’arrivo dei loro mariti.
Finalmente li videro spuntare, stanchi, affamati ma soddisfatti.
Non ci fu bisogno di parole, parlavano i fatti: Armando portava, attaccata alla cintura, la carcassa della faina assassina.
La voce si sparse rapida nel villaggio come il passaggio dell’acqua di un fiume in piena e così la tranquillità fu ristabilita.
Gli umani entrarono nelle loro povere ma dignitose case, gli animali nei loro abituali rifugi e una a una, si spensero le luci delle case.
La notte era buia ma ci pensò la Luna che, sorgendo all’improvviso da dietro una collina, illuminò con la sua luce argentea il piccolo villaggio.
Diede uno sguardo curioso a umani e animali e li lasciò riposare, poi guardinga e silenziosa aspettò di vedetta, nel cielo scuro, l’arrivo dell’alba di un nuovo giorno …

Nonna Caterina guardò la nipotina addormentata da sopra gli occhiali, rimboccò le coperte e prima di chiudere la porta mormorò:
«Sembra un angioletto, peccato che non riesca mai ad arrivare alla fine di una storia senza crollare!».
Chiuse il libro e sorrise.