Quando Giulia aveva esposto il progetto che aveva in mente a sua madre Franca, questa era rimasta a lungo silenziosa. Per quanto ormai da qualche tempo si fosse, come dire, “uniformata” a quella figlia così lontana dal suo mondo e dai suoi modelli di riferimento, un simile proposito non poteva che apparirle assurdo. Ma come era possibile che una donna sana, normale e bella come Giulia desiderasse avere un figlio – questo, d’accordo, era comprensibile, anzi auspicabile – senza, al tempo stesso, augurarsi di dargli un padre?! Anzi, e questo a sentirla era il punto più importante, di un padre fisiologico c’era bisogno solo perché “non mi piace l’idea di una provetta anonima e d’un donatore sconosciuto”. D’accordo che i tempi non erano più quelli in cui Franca era cresciuta e che lei per prima, tutto sommato, ci aveva tenuto ad allevare la sua unica figlia con idee di ben più larga veduta di quelle con cui a sua volta era stata costretta a crescere, tuttavia non capiva che bisogno ci fosse di fare a meno di un padre, atto generativo a parte.
«Quante donne hanno cresciuto figli da sole, senza un marito? Magari perché abbandonate da qualche vigliacco o semplicemente per aver perso l’uomo che le aveva messe incinte. Per non contare quelle che l’hanno dovuto fare anche se un marito ce l’avevano». Qui era seguita una nutrita ed allusiva schiera di puntini sospensivi, infine sfociata in un «Perché diavolo non posso farlo io?»
Perché è dura tirare su un figlio da sole, perché la gente ti guarda strana, quando non t’imbarazza, perché un figlio potrebbe aver diritto ad un padre, aveva risposto Franca. Ma a Giulia della gente non fregava niente e suo figlio avrebbe capito, al momento giusto. Quanto alle difficoltà, beh era per quello che si stava confidando con la madre, perché desiderava il suo aiuto, oltre ad averne bisogno. Ma, in ogni caso, un rifiuto non le avrebbe fatto cambiare idea. Sarebbe stato solo un po’ più complicato, avrebbe richiesto altre soluzioni organizzative, ma non avrebbe certo rinunciato.
«D’altra parte, parli proprio tu» aveva aggiunto Giulia, come se ci fosse stato il rischio che la madre non avesse già capito l’allusione precedente «che in pratica m’hai cresciuta da sola. Visto che papà era sempre via per lavoro. Talmente via, che un bel giorno ha deciso di restarci, via, e di farsi una nuova famiglia!!»
Franca s’aspettava qualcosa del genere; conosceva i rancori di Giulia verso il padre ed anche se in cuor suo aveva sempre sperato che potesse superarli senza troppi danni, sapeva pure che, magari in altri tempi, lei per prima aveva, come dire, soffiato su certi fuochi per tirare Giulia dalla sua parte. Ed ora, in qualche modo, si sentiva colpevole di quelle che parevano proprio conseguenze di passati errori…
«Tuo padre è stato quello ch’è stato, uno stronzo d’accordo, però non ci ha mai fatto mancare niente. E credimi, un figlio, tra l’altro, costa un mucchio di soldi» era stato l’ultimo, tanto disperato quanto inutile tentativo d’indurre Giulia a riflettere. Ma questa aveva fatto spallucce: lavorava, era una professionista affermata e ricercata, guadagnava bene, i soldi erano l’ultimo dei problemi… «Tua madre sarà sempre dalla tua parte, ricordalo. E poi forse è anche ora che io diventi nonna…». Così il progetto era stato approvato all’unanimità, aveva detto Giulia; come se ci fosse mai stata la possibilità di un epilogo diverso, aveva pensato Franca, ma non l’aveva detto.
La prima parte pesava, e non poteva essere altrimenti, tutta sulle spalle di Giulia. E ci mancava che fosse Franca a trovare il… – come definirlo? – Fortunato Donatore. Anche se non c’entrava nulla parlare di fortuna, così madre e figlia, avevano deciso di nominarlo, quasi a voler scongiurare l’impegnativa parola padre. Giulia naturalmente non s’era certo contentata del primo che capitava: ci stavano Mendel, Darwin e tanti altri illustri signori che avevano ben messo in chiaro che sull’ereditarietà non c’era da scherzare. E siccome era da tempo che ci pensava, se l’era scelto maturo, indubbiamente brillante e di successo, anche bello, perché no? E, ovviamente, assolutamente sposato. L’ovviamente dipendeva dal fatto che questo dava a Giulia (e Franca alla fine s’era trovata d’accordo) una garanzia maggiore rispetto al rischio che il prescelto, al momento giusto venisse preso da qualche strano senso di colpa o da un improvviso bisogno di paternità. Sebbene remota, era un’eventualità non trascurabile dalla quale era saggio mettersi al riparo. E, per quanto una certezza matematica non fosse possibile, la presenza di moglie e figli legali costituiva certamente un buon deterrente a qualsivoglia malinteso e sconsiderato intervento del cosiddetto – decisamente antiquato – senso dell’onore.
In aggiunta (ma aveva anche il sapore di una tipica revanche antimaschilista) Giulia, dopo aver sedotto e frequentato quanto serviva il Fortunato Donatore, s’era fatta scrupolo di informarlo ampiamente sul ruolo che gli era stato assegnato dalla vita (o meglio da lei, ma questo era secondario a suo avviso), in modo tale che si levasse dalla testa d’essere stato chissà quale playboy a portarsi a letto una giovane e per di più acclarata gnocca. Il tutto con l’intenzione precisa di farsi dare della “troia”, cosa che puntualmente aveva ottenuto nel loro ultimo incontro chiarificatore: un po’ di sano risentimento da macho ferito nell’orgoglio avrebbe aiutato il soggetto in questione a mettere una bella pietra tombale sulla scappatella. Tempo dopo Giulia avrebbe casualmente saputo che non era mancata la più proverbiale e completa confessione a moglie e figli, probabilmente indotta e “facilitata” da certi sviluppi con cui presto avremo a che fare. Il tutto con tanto di perdono e vita di coppia rigenerata: la moglie s’era solo assicurata col consorte che la rivale (definita con epiteti assai meno distaccati) non potesse avanzare qualche pretesa economica; il figlio aveva fatto un occhiolino complice e virile al padre e s’era rimesso le cuffie del ipod, mentre la figlia aveva approfittato del momento per estorcere al padre una macchina nuova. Così era stato archiviato felicemente per tutti (probabilmente anche per lui, abituato a pagare i suoi debiti, pure quelli di coscienza, con il libretto degli assegni) il capitolo di competenza del Fortunato Donatore.
Come quasi sempre in questi casi la pancia di Giulia era cresciuta a dismisura: c’erano state le nausee di prammatica, seguite poi dalle voglie strane ed improvvise, le visite ginecologiche, gli esami e tutto il resto come si conviene oggi ad una puerpera che si rispetti. Su una cosa (ma a ben vedere anche sul resto) era stata irremovibile: il sesso della creatura che sempre più faticosamente portava a spasso nel pancione doveva restare un religioso e doveroso mistero sino all’esplosione del primo, magnifico e liberatorio vagito. Non aveva, ovviamente, voluto vedere le varie ecografie che il ginecologo le aveva assicurato essere perfette, ma erano state tutte puntigliosamente catalogate in busta chiusa, con data ed ora, nell’archivio senza nome (lo avrebbe avuto quando anche il bimbo, o bimba che fosse, avrebbe ricevuto il suo). L’archivio innominato, oltre che referti e documentazioni che Giulia definiva tecniche, aveva il suo pezzo forte nel diario su cui lei, immancabilmente, appuntava fatti, misfatti e, soprattutto, le sue sensazioni ed emozioni di donna in gravidanza. Magari sotto sotto c’era l’idea nascosta e inconscia di farne un libro, un giorno, ma l’obiettivo dichiarato era che quello sarebbe stato il regalo perfetto da fare al suo tesoro il giorno in cui i fatti della vita avrebbero dimostrato ch’era arrivato il momento che sapesse come stavano le cose. Nel senso che lì dentro c’era, tra l’altro, tutta Giulia, quella madre che sicuramente, come per ogni tesoro che si rispetti, sarebbe stato un mistero tanto affascinante quanto insondabile. C’era spiegato tutto: dai suoi primi ricordi di bambina, alla decisione di diventare madre, dalla storia del Fortunato Donatore (quello sarebbe stato certo uno dei pezzi forti, lei immaginava chiedendosi non senza malizia come l’avrebbe presa il figlio o figlia che fosse), alle cosiddette gioie della maternità, il tutto con la massima, e talvolta cruda sincerità. E questo sarebbe significato – è chiaro – rivelare il nome del padre: che lui o lei decidesse cosa fare dell’informazione!
Non aveva deciso, Giulia, se quel diario sarebbe continuato anche dopo la nascita. Per certi versi avrebbe voluto, ma immaginava che il tempo le avrebbe certo fatto difetto: e poi correva il rischio di consegnare all’erede una sorta di Treccani. Insomma: quello restava un punto aperto e sarebbero stati gli eventi a prendere la decisione corretta.
Infine, era arrivato il gran giorno: la sapiente programmazione materna aveva, com’era prevedibile, ampiamente organizzato le cose in modo che il tutto avvenisse poco dopo che la terra aveva toccato il suo equinozio di primavera. Quando le giornate cominciano veramente a sembrare più lunghe e l’aria si addolcisce in attesa che le rondini tornino ad occupare quei nidi abbandonati giusto poco dopo che Giulia aveva avuto la certezza che ormai il suo tesoro s’era saldamente ancorato alle pareti della nave (così immaginava il suo utero) che l’avrebbe portato dal mondo delle acque a quello della luce e dell’aria.
Marco venne alla luce, dopo un lungo e spossante travaglio, pochi minuti dopo la mezzanotte (se volete sapere il giorno aspettate che Giulia pubblichi il suo libro, se mai lo farà), quasi fosse una scelta precisa del nascituro e non di Giulia; un sanissimo, bellissimo ed inequivocabile maschio, del peso di chili quattro e cinquanta grammi, dotato di possenti polmoni e, per dirla alla maniera un nostro amatissimo politico, decisamente abbronzato.
E qui ci dobbiamo bloccare tutti, per forza. Sia ben chiaro che non stiamo parafrasando la canzone napoletana in cui la mamma lo chiama Ciro (e vi risparmio il dialetto, dove non brillerei). Qui la madre lo chiama Marco, cosa decisa a tempo debito, come da diario (fosse stata femmina, sarebbe stata Ella – il che non faccia gridare alla premonizione: è solo che Giulia amava molto il jazz e quello era un nome che, oltreché evocare la grandissima ed ineguagliata Ella Fitzgerald, poteva anche sembrare italiano e non generare quindi, se smaccatamente estero, le reazioni idiote di certi italiani che dicono di essere molto tali, italiani o idioti fate voi, tanto raramente c’è differenza). Inoltre, sgombriamo subito il campo non solo da pregiudizi razziali che a Giulia non la sfioravano nemmeno: intanto sapeva che il discorso delle razze era stato del tutto smentito dalla scienza. E poi a lei il colore della pelle la lasciava del tutto indifferente.
Però mica che si poteva scordare dove viveva o, peggio ancora, con che razza di cultura Marco si sarebbe trovato a fare i conti prima o poi. Perché sulla carta l’Italietta è paese moderno, aperto e senza pregiudizi, men che mai razziali. Sulla carta, appunto. Poi nei fatti non è le cose che vadano sempre così e Lega insegna che la madre dello stronzo, anche qui da noi, è perennemente incinta. Ed a Giulia questa storia dava un gran fastidio.
Franca, di primo acchito, aveva scosso la testa, come a dire: “L’avevo detto!”. Ma la frase era rimasta lì a svolazzare nella nursery, dove un’infermiera le aveva delicatamente passato quel fagotto addormentato ed era bastato un secondo perché la frase s’eclissasse una volta per tutte nell’orizzonte del nulla. In quel secondo Marco aveva aperto gli occhi e sorriso alla nonna.
«Va bene, mamma. So benissimo che il colore della pelle non vuol dire nulla. So anche che Marco è bellissimo, anzi è sicuramente il bambino più bello del mondo, su questo non ci piove. E puoi stare tranquilla che non lo butto nella spazzatura solo perché è un poco sporco!».
«Quando dici queste scempiaggini mi fai pentire di essere tua madre!» aveva rimandato Franca piccata.
«Mamma, sto scherzando… e che cazzo! Capisco che essere nonna ti dia un po’ alla testa, ma non vorrei perdessi il buon senso che sempre hai avuto, almeno quanto ti tornava comodo per rinfacciarmelo. Non capisci che se a me e a te non importa un bel niente del colore della pelle di Marco, io, che sono la madre, debbo anche preoccuparmi del fatto che il mondo non la pensa proprio come me e te?».
«Ma che dici, Giulia? Forse negli anni Cinquanta, quando ero una ragazzina e subito dopo la guerra si badava a certe cose, ma oggi… e poi non lo vedi che siamo ormai circondati da extracomunitari africani?».
«Mi fa piacere che te ne sia accorta, cara mamma. E allora forse ti sarai pure accorta che questo paese sta diventando più razzista ogni giorno che passa.».
Alla (una volta di più) rassegnata Franca non era rimasto che chiedere: «E allora cos’è che vorresti fare?», come chi si arrende al più inevitabile dei destini. La risposta di Giulia non era stata di quelle che potevano rincuorare Franca: «Ancora non lo so mamma. Quello ch’è sicuro è che il piano va modificato. Però ancora non so come». E questa incertezza pesava su ambedue le donne come un macigno; solo Marco, ignaro del cancan con cui aveva esordito il suo transito terreno, continuava pacioso ad attaccarsi al seno materno con grande entusiasmo e regolarità olimpica, ingannando l’attesa tra una poppata e l’altra con profonde ed abbondanti dormite che all’inizio avevano creato non poche perplessità persino nel personale della clinica che pure era abituato praticamente a tutto. Infermieri, dottori e persino le suore non facevano che ripetere che mai era stato dato loro di vedere un bambino così tranquillo e, se non fosse stato ridicolo solo a pensarlo, così ben educato!
Franca, in cuor suo, pensava che il carattere di suo nipote dovesse essere un frutto ereditario tutto paterno, visto che Giulia da appena nata era stata una vera e propria disperazione. E, d’altra parte, crescendo aveva dimostrato che la grinta mostrata in culla non era, in fondo, che la prima espressione di un carattere decisamente forte ed incline a dominare gli altri. Naturalmente, visto che del discorso paterno s’è accennato, non erano mancate domande sulla questione del colore di Marco. Come abbiamo già accennato, passato il primo momento di sbandamento, per la nonna era diventato assolutamente irrilevante ed anzi pareva proprio che per lei non ci fosse il problema. Tuttavia la cosa, diciamo, aveva egualmente creato un bel po’ di punti interrogativi, almeno se la si voleva guardare con i parametri consueti che la donna era abituata ad usare quando si trattava di pargoli. Insomma, a volerla fare breve: com’era possibile un simile colore della pelle se padre e madre erano indiscutibilmente bianchi e, come dicono sempre gli americani, caucasici? Così almeno aveva detto Giulia, e Franca non aveva motivo di dubitarne.
Andando a guardare su qualche testo in biblioteca aveva scoperto che esistono i caratteri recessivi, che magari rimangono inattivi per un’infinità di generazioni e poi d’improvviso ricicciano fuori (l’enciclopedia non diceva proprio così) quando meno te lo aspetti. Vattelapesca se negli antenati di Giulia o in quelli del Fortunato Donatore c’era stato magari un qualcuno di colore! Non solo. A ben guardare, essendo che l’Italia era stato un paese, come dire, di passaggio per tanti e svariati popoli nel corso della storia, è piuttosto probabile che nel patrimonio genetico nostrano ci sia una traccia recessiva abbondate di pelle africana. In fondo basta andare al sud per rendersi conto che il colore della pelle si scurisce un bel po’, e non solo per l’effetto abbronzante cui fa riferimento il già accennato uomo politico, uno dei tanti idioti che si credono spiritosi sull’argomento.
Nondimeno l’evento – questo era innegabile – pure se scientificamente parlando plausibile, restava confinato dalla statistica in una percentuale talmente irrisoria che casi del genere se ne potevano contare veramente pochi. E quei pochi anche dubbi, visto che non è che ci si potesse poi fidare ciecamente delle assicurazioni delle madri sul fatto di non aver avuto rapporti con individui troppo abbronzati, dio ci guardi! Così insomma, dopo un certo numero di domande più o meno vaghe, ma pur sempre insistenti e corredate dall’avanzato buon diritto, in quanto collaboratrice del progetto, ad investigare in proposito, alla fine alla puerpera era venuta una illuminazione.
Era venuto fuori che sì, insomma, è vero, c’era stato qualche “diversivo”, casuale ed involontario, sia ben chiaro, nella dinamica a suo tempo avanzata nel progetto. Insomma, Giulia s’era presa una piccola libertà con un chitarrista di colore che aveva conosciuto per caso a Londra durante un viaggio di lavoro. A suo tempo le era sembrato del tutto irrilevante e secondario, tanto da quasi dimenticarlo.
«Ma ti assicuro mamma che non può essere quello il padre!» aveva affermato con convinzione la neomamma. Poi, vedendo lo sguardo perplesso della nonna di Marco, aveva aggiunto: «Per il semplicissimo motivo che già ero incinta!». Lo sguardo di Franca, evidentemente, era rimasto perplesso anche dopo la rivelazione chiarificatrice, visto che Giulia aveva sentito la necessità di approfondire la questione. «Insomma, è stata la cosa di una notte e me la sono concessa proprio perché la mattina avevo avuto conferma che ero incinta. E mi andava di festeggiare la riuscita del progetto…»
«Ma se eri a Londra come hai fatto a fare le analisi?»
«Dovresti sapere che ogni farmacia ormai vende i test di gravidanza…».
E già mentre lo diceva, Giulia aveva letto negli occhi della madre quanto bastava per rendersi conta da sola che fare cieco affidamento su quei prodotti non era stata un’idea all’altezza delle sue indiscusse qualità cerebrali. Lo sanno tutti che certa roba commerciale non è che dia un risultato proprio affidabile, d’accordo, e d’accordo pure sul fatto che la voglia che quel chitarrista le stimolava poteva aver aiutato la prova farmaceutica con una complice sensazione di essere pregna che, quantunque oggetto di tanta letteratura, aveva ben poche basi scientifiche.
D’accordo su tutto, ma insomma, chi se ne fregava, no? Marco c’era. Era bellissimo, anzi era perfetto e al diavolo chi fosse il padre. Tanto era comunque certo che chiunque fosse, nella vita dei lui di certo non ci sarebbe entrato se non come un racconto futuro. E tanto valeva allora scrivere l’ultima pagina di quel benedetto diario ed archiviarlo per il momento in cui fosse venuto il momento di farne dono al ragazzo ormai in procinto di diventare uomo.
Certo, anche se si voleva anche considerare risolto il problema del perché di quel colore di pelle, restava in piedi l’altra questione, e cioè quel colore di pelle. Franca s’ostinava a negare che fosse un problema, ma Giulia aveva qualche perplessità. O meglio: neanche per lei quel fatto rappresentava un problema ed era immensamente felice che non lo fosse per la madre (qualche piccolo dubbio, doveva ammetterlo, in prima battuta c’era stato). Ma di certo c’era un bel po’ di gente in giro che non la pensava esattamente così, al di là di pletoriche e vuote dichiarazioni d’intenti. Insomma: quanti padri di figlie femmine, per quanto progressisti, aperti, di sinistra e via cantando, di fronte alla figlia che porta in casa il suo ragazzo di colore, non fanno un salto sulla sedia e, se tutto va bene, cominciano a sudare freddo o, se invece non va bene niente, danno fuori di matto?
«Statistiche precise non ci stanno, cara la mia mamma, sono d’accordo. Ma accetto scommesse sul fatto che bastino le dita di una mano a contare i padri che, come Spencer Tracy, sopravvivono ad un pur bellissimo Sidney Poitier di “indovina chi viene a cena”!».
«Ehi, non mi dire che il tuo chitarrista londinese somigliava a… come si chiama?»
«No, mamma, non somigliava a Sidney Poitier. Era affascinante, ma non così bello! Me lo ricorderei di certo, così fosse… E poi, non so, forse era pure l’idea di non aver più bisogno del Fortunato Donatore che mi ha spinto… a festeggiare. Non ho idea!»
«A proposito del Fortunato Donatore, hai pensato a cosa dirà in giro quando verrà a sapere di Marco?»
«No, mamma, non ci ho pensato. Cosa vuoi che me ne importi? Ammesso e non concesso che l’abbia mai sfiorato un qualche senso di colpa, si metterà l’anima in pace e si sentirà fiero d’avermi dato della troia, immagino! Tanto di guadagnato, adesso, almeno da quel lato non corriamo rischi, no? e vuoi sapere una cosa? Ma perché debbo preoccuparmi poi del colore della pelle di mio figlio? Se vogliamo gli ho garantito un vantaggio: così almeno una parte degli stronzi che incontrerà inevitabilmente nella vita, quelli sul modello del nostro illustre politico, li riconoscerà subito e si risparmierà qualche sgradevole sorpresa. E poi un’altra cosa: sono sicura che il DNA del mio chitarrista è di gran lunga migliore… Una donna, queste cose, le sente!»
Ma se la questione della pelle non creava traumi particolari, c’era tuttavia voluto un po’ di tempo per venire a capo delle perplessità che s’erano create nella testa di Giulia, quelle relative al nostro amato paese e se fosse saggio lasciare che Marco vi crescesse.
Vale forse la pena precisare che i fatti narrati si svolsero all’inizio del millennio e, sotto certi aspetti, la questione razziale da noi ancora non s’era imbastardita troppo. Non quanto almeno sarebbe avvenuto in seguito, con gli sbarchi e le polemiche fascio leghiste.
Ed oggi, che di tempo n’è passato quanto necessitava per scoprire che tutti i guai del nostro paese altro non sono che la conseguenza dell’invasione degli africani, voluta dai cinesi e sostenuta ad hoc dai russi di Putin, che la corruzione e l’incompetenza di amministratori e politici è solo una favola dell’Europa, Germania in primis, che vuole tenerci sotto il tacco con l’euro, che i mussulmani si sono messi in testa di convertirci all’islam e fotterci tutte le donne, oggi, dicevamo, Marco è un ragazzo alto, robusto e forte che anche certi ceffi si guardano bene dal provocare. Giulia è un po’ invecchiata, ma è ancora una bella donna: pur non essendole mancate occasioni interessanti, ha preferito restare single. Non ha continuato il suo diario ed ora che si sta avvicinando il diciottesimo compleanno di suo figlio, sta cercando di capire come realizzare il “dono” della sua storia di mamma al figlio ormai prossimo a diventare uomo. Franca è una nonna felice, anche se ormai stanca e, dice lei, ormai buona solo a stare tra i piedi e dare fastidio.
Non è stato tutto facile, naturalmente. E alla fine Giulia ha deciso che se Marco voleva sperare di avere un futuro bisognava andarsene da un paese che s’ostinava a farsi dominare dalla mafia e dai preti. Aveva scelto l’Inghilterra, ma solo perché offriva migliori prospettive di studio. Poi Marco avrebbe scelto secondo i suoi talenti, E forse avrebbe voluto sapere di più di suo padre. Per questo ora, che si avvicina il fatidico compleanno, sta lambiccandosi il cervello per come dargli questa chance, se basta il regalo dei diari o se non sarebbe necessario qualcosa in più, tipo andare a ricercare il famoso chitarrista di colore.
Ma, a ben vedere, questo ormai non è più un suo problema: toccherà a Marco fare la cosa che gli parrà giusta e lei potrà solo stargli accanto. Che poi le madri questo fanno, dal primo respiro dei figli e, talvolta, anche da quando son solo ragazze e sognano di metterli al mondo, un giorno.