Come io sia caduto – e quando – nel Paradiso degli orchi, per incontrarmi col Signor Malaussène e con la sua stramba ed creativa famiglia, non mi riesce di ricordarlo. Men che mai ne rammento il perché.
Forse è arrivato il momento di una piccola confessione: ebbene sì! Appartengo alla schiera di quelli che si fanno sedurre da una copertina azzeccata (noterete forse che non ho detto “bella”, il fatto estetico, almeno per me, non c’entra). O almeno così era all’epoca del mio primo incontro con lo sconosciuto Daniel Pennac – oggi cerco di sfuggire alle sirene incantatrici delle copertine e cerco di rifugiarmi nella mia confidenza con l’autore. Il libro citato esce in Italia nel 1991 ed allora ero più giovane e molto più in vena d’oggi di avventurarmi nella scoperta di pagine ignote. Può ben darsi quindi che fosse stata una copertina a sedurmi, ma se così non ricordo nemmeno lei. Nel dubbio, mi piace pensare che sia stato il destino a mettermi in mano quel libro e, con tutta probabilità, se anche non ci fossimo incontrati ai tempi della sua prima pubblicazione, era fatale che prima o poi ciò avvenisse.
Fatto sta che, allorché m’immergo nella lettura, per una quindicina di pagine almeno vado vanti chiedendomi se non ho per caso commesso un disgraziato errore a portarmi a casa quel libro: mi sembra piuttosto folle e confuso. Però al contempo c’è un non so che, un qualcosa che mi trattiene dal chiuderlo e gettarlo via. Magari è pur vero che quel qualcosa va a braccetto con una sorta di super Ego di allora che m’imponeva di non abbandonare le pagine d’un libro se non quando veramente ero arrivato alla parola “fine”, pure quando c’era un’insanabile incompatibilità di carattere con le pagine. Oggi, che il futuro comincia a scarseggiare e sono quindi più attento a non sprecare occhi e tempo, ambedue divenuti beni preziosissimi, forse, avrei lasciato perdere d’insistere. Meno male allora che sia andata così, che restasse un quid di magnetico in quel cha andavo leggendo: avessi dato retta solo alla ragione di sicuro mi sarei perso una esperienza che, lo sottoscrivo, non solo è stata esilarante ma, in qualche modo, penso m’abbia reso migliore.
Permettetemi allora di citare Wikipedia: ”Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, 1º dicembre 1944), è uno scrittore francese. Nato nel 1944 in una famiglia di militari di origini corse e provenzali, passa la sua infanzia in Africa, nel sud-est asiatico, in Europa e nella Francia meridionale. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante, nonostante la sua dislessia, comprende la sua passione per la scrittura e, al posto dei temi tradizionali, gli chiede di scrivere un romanzo a puntate, con cadenza settimanale.”
Al tempo in cui m’immergo nelle sue pagine ignoro del tutto chi sia questo Pennac e la sua vita. Seguo la serie della sua incredibile famiglia letteraria e, ogni volta, è un appuntamento di quelli che aspetti con gioia perché sai che il divertimento è assicurato e che, soprattutto, potrai passare il tuo tempo in compagnia di persone speciali, di quelle che vorresti incontrare davvero nella vita e con cui saresti pronto a rischiare anche strambe e bizzarre avventure. Personaggi improbabili ma, a modo loro realissimi e, soprattutto, ricchi di una profonda umanità che ti fa venir voglia di amare il mondo, nonostante tutta l’indubitabile desolazione che ci circonda.
E ti chiedi come sia stato possibile che questo simpatico signore, pressoché tuo coetaneo, d’origine corsa, dal cognome (quello vero) così italiano e che in italiano s’esprime benissimo, abbia dentro tanta capacità di coinvolgerti nel suo specialissimo mondo. E ti domandi pure se per caso non sia stata quella sua “primitiva” dislessia, quella che era in procinto di rovinargli vita, a regalargli così tanta travolgente gioia di vivere. È possibile ed allora ne consegue la ovvia considerazione di quanto possa essere sottile il confine tra una eventuale (e purtroppo frequente) vita da emarginati e quella di chi riesce a tirar fuori un mondo di positiva felicità e speranza.
Daniel Pennac, un educatore che sa fare il suo mestiere
E, soprattutto, quante volte bisogna dir grazie ad un educatore che sa fare il suo mestiere e, con ogni probabilità, nel farlo ci mette l’amore e la sensibilità necessari. Quelle cose cioè che nessuno stipendio potrà mai ripagare e che certi “soloni” politici e non, sempre pronti a svilire la scuola nel nome del “dio profitto”, farebbero bene a considerare con attenzione prima di aprire sciaguratamente la bocca e sparare fesserie.
Ma chiudiamo queste parentesi che rischiano di portarci troppo lontani e torniamo allo scaffale. Pennac non è soltanto uno scrittore sbarazzino ed un po’ fuori dagli schemi: è anche persona estremamente colta, un vero insegnante, con idee particolari (magari non tutte condivisibili) su cosa e come andrebbe rivisto nel sistema dell’apprendimento scolastico e, d’altra parte, non a caso per anni ha fatto l’insegnante e le sue storie hanno come protagonisti dei bambini, un po’ particolari ed insoliti, ma pur sempre bambini (e genitori, indubbiamente anch’essi “speciali”).
Ha pubblicato altri libri, oltre quelli della famiglia Malaussène, alcuni molto seri. Le storie le ho comprate e lette tutte, dei saggi ne ho comprati alcuni e, prima o poi, intendo leggerli. Verrebbe quasi voglia di dire che ho un più o meno inconscio timore di guastare il sapore dei suoi romanzi inziali; che preferisca insomma lasciare inalterata quella allegra e umanissima atmosfera che i suoi personaggi e le loro storie son riuscite a depositare nelle mie sinapsi.
Eppure ricordo benissimo anche lo sconcerto provato nell’incipit d’una delle “puntate” dopo la prima (non chiedetemi quale, mi sfugge): per molte pagine mi pareva di navigare in un horror allucinante. Ed io odio gli horror. Ricordo d’essere arrivato al punto di chiedermi se non fosse sbagliata la copertina e, per assurdo, l’editore avesse combinato un esecrabile e clamoroso scambio di testi. E ricordo il sospiro di sollievo quando tutta quella messa in scena altro non era che uno scherzo. Duplice in un certo senso: della combriccola dei bambini nella storia e di Pennac verso il lettore.
Me lo sono immaginato “scompisciarsi” dalle risate mentre lo scriveva, immaginando la faccia del lettore (la mia ad esempio). E, se possibile, è cresciuta la mia ammirazione per le sue capacità creative e tecniche: tanto di cappello, insomma. Perché solo gli scrittori veri, quelli che hanno la voglia di narrare che scorre loro nelle vene col sangue, riescono a prenderti e portarti laddove vogliono. Ci sono modi “facili” e scontati per tentare di farlo, abusati e sin troppo banali (mi viene in mente un Moccia con le stucchevoli banalità adolescenziali o un Coelho con la sapienza della sua “sagra dell’ovvio” che fa un baffo a Monsieur de La Palisse).
Poi ci sono gli artisti, gli scrittori, quelli veri. Ed a loro m’inchino perché, lo ribadisco, “quell’inferno che si sconta vivendo” (citazione di non ricordo più chi, Camus forse, ma non ci giurerei) in loro compagnia è decisamente migliore e più sopportabile.