Beh, il titolo è, a bella posta, fuorviante. Ma nemmeno tanto… allora bisogna procedere con un po’ d’ordine: intrecci troppo astrusi non possiamo concederceli e, di conseguenza, ricorriamo subito alla fabula che rassicura chi scrive e, soprattutto, chi legge.

Sto cercando di introdurre una presenza letteraria speciale. Non solo perché si tratta di una donna, che se c’è stato un tempo in cui questo poteva essere considerato un evento straordinario, oggi vivaddio non è più così; ma soprattutto perché il personaggio tutto, in qualche modo, si presta a suggestionare la fantasia.

La prendo da lontano: le mie frequentazioni con gli ambienti della scrittura creativa presentano, tra i tanti vantaggi, quello di offrire chance che non è detto si avrebbero avute altrimenti. Nella mia vita di lettore navigato, tanto per dire, non avevo mai sentito nominare Joyce Carol Oates. Già a pronunciarne il nome tentando di imitare gli strani rumori che sovente gli anglosassoni emettono spacciandoli per parole, incontro qualche difficoltà, almeno, personalmente. Quando poi scopri che non solo è autrice di oltre cento libri, che da quaranta anni tiene seminari di Scrittura Creativa in una prestigiosa (Princeton) università americana, quando vedi qualche sua foto in cui coniuga la sua indubbia femminilità con tratti che potrebbero benissimo essere frutto d’un disegnatore di fumetti, ti viene quasi il dubbio che dietro ci sia qualche scherzo, o, più banalmente, una sorta di depistaggio complicato da interpretare.

Ma all’inizio tutto questo lo ignoravo: nel laboratorio c’era solo in programma di analizzare un romanzo, di studiarne trama, intreccio e fabula. Il libro proposto da chi teneva quel seminario di scrittura creativa era La figlia dello straniero di, appunto, J.C. Oates. Titolo, se vogliamo, banale che quasi induce a pensare ad un tema a metà tra Harmony ed il romanzo storico. Scrittrice, per me ribadisco, assolutamente sconosciuta. Non sembrava una cosa granché stimolante ma, insomma, un po’ la fiducia in chi ti consigliava, un po’ il fatto che se vuoi lavorare sul serio sulla scrittura non ha senso avere prevenzioni e storcere il naso e, infine, un qualche astruso senso della disciplina (sic) portarono a sottoscrivere la scelta praticamente al buio.

La figlia dello straniero, un titolo fuorviante

Leviamoci subito di torno la questione del titolo: quello originale è The Gravedigger’s Daughter e, come vedete non ha molto a che fare con la traduzione italiana. È pur vero che il “padre” della figlia in questione è uno straniero in terra d’America, ma, insomma, non è che questo lo connoti in maniera determinante, visto anche il fatto che, volendo, pressoché tutti gli americani sono, in qualche modo, stranieri in quella terra, discendenti di immigrati che hanno sterminato gli abitanti originali. Ma, al di là di questa scontata polemica, rimane difficile capire il motivo di questa banale traduzione del titolo. È pur vero che il termine “gravedigger” non trova una vera e propria corrispondenza in italiano: quella che ho scelto io, titolando questo scaffale, si avvicina al senso (molto più di “straniero”, ma a far questo non ci voleva granché) ma non può essere certo considerata letterale. D’altra parte, se cercate sul vocabolario, lo trovate tradotto con “becchino” il che è di certo più vicino al personaggio ma certo la nostra percezione del becchino è diversa dalla sostanza del personaggio che, appunto, è figura più umile e, volendo, anche piuttosto dispregiativa.

Potrebbe anche sembrare una questione di “lana caprina” e magari lo è. Tuttavia il senso di disgusto che la parola inglese evoca è fondamentale nella tematica del romanzo. Non posso spiegarne il perché: se avete letto il libro lo sapete da soli, altrimenti non mi sogno certo di togliervi il piacere di scoprirlo. E arriviamo al nocciolo della questione: si tratta di un dramma, intenso, vibrante, profondo e narrato con grandissima perizia. È la rievocazione della vita della protagonista: una donna che trova la sua emancipazione da un destino piuttosto duro, con la fuga ma anche con grande coraggio e determinazione. Soprattutto conclamando quella intelligenza al femminile che gli schemi patriarcali (anglosassoni e non) troppo spesso negano ed insultano.

Come accennavo, è notevole il modo in cui l’autrice narra la successione degli eventi, con continui salti temporali in avanti e indietro e sempre con l’occhio attento sul “dramma” ch’è all’origine della storia e che viene rivelato con sapienza, centellinato quasi lungo la storia.

Emancipazione femminile e violenza nella famiglia americana

Il tema di fondo, l’emancipazione femminile, i soprusi e le angherie che la storia al maschile esercita sulle donne, avrei poi imparato essere il cavallo di battaglia della nostra scrittrice. Accanto ad esso la Oates è instancabile nella denuncia della cultura della violenza ch’è alla base dell’America e di come la famiglia sia troppo spesso il cuore di questa violenza, oppressiva e asfissiante soprattutto verso le donne ma, e questo forse è un carattere che la qualifica in maniera maggiore, in generale verso l’individuo.

Di lei, dopo quella prima “scoperta” ho comprato pressoché tutto e letto molto. Devo essere sincero: non sempre tutto m’ha colpito come quella prima lettura, ma resta pur sempre una produzione di qualità notevole ed un bel leggere. Espressione soprattutto d’una enorme capacità tecnica nella narrazione e, ribadisco, ampiamente condivisibile negli ideali e nelle battaglie sociali che questa instancabile scrittrice porta avanti. Non è per nulla un caso infatti che abbia per decenni insegnato (ora, in procinto di celebrare gli ottanta anni, dovrebbe essere in pensione) scrittura creativa: cosa che in America, a differenza che da noi, trova sovente vere e proprie cattedre universitarie come, a mio avviso, è giusto che sia.

Mentre in Italia si legge poco e si scrive tanto…

Ma noi, che della letteratura siamo culla e vantiamo di certo una schiera enorme di grandissimi letterati, a quanto pare non riteniamo doveroso fare altrettanto. D’altra parte, in Italia si legge poco o niente; ma si scrive tanto, questo è vero. Così fiorisce quella editoria a pagamento (da parte degli autori) che sforna di tutto ogni anno e che finisce regolarmente al macero, fatte salve le copie regalate a quelli di casa…

Scusate lo sfogo: ma l’ambito e l’occasione m’han portato verso l’inevitabile. Nessuno da noi si sogna di portare i fenomeni letterari ad insegnare nelle università. Se questo rifiuto può anche essere legittimo per i Moccia ed i Volo (inorridisco al solo pensiero), e salvando chi, come Umberto Eco, nasce prima come professore e solo poi come scrittore (e, pare, per scommessa, come vedremo), come atteggiamento generale non ha molto senso. Ma d’altra parte, se mancano i lettori, non può che essere questo il logico e triste epilogo. Chiudo dunque sfogo e parentesi: essendo tutto e tutti legati ai mercati economici è giusto, logico e consequenziale che un calciatore, un cantante, un attore guadagni molto di più di uno scrittore.

Persone come la nostra Oates dunque sono fortunate ad essere nate in una nazione vasta che parla una lingua ampiamente molto diffusa nel mondo: meritano senz’altro il loro successo e, benché in traduzione, siamo felici di poterle leggere… speriamo meglio e più in un mondo futuro ed in un’altra vita.