Viola spalancò le persiane, fece il letto, sprimacciò i cuscini. E replicò gli stessi gesti in ogni stanza, come in una fa-vola dei fratelli Grimm. 

Ma Viola non viveva in una favola e non rassettava le stanze del suo castello. Lavorava in un Motel, di quelli sui quali gettiamo sguardi fugaci quando corriamo in autostrada; Motel con i nomi tutti uguali, ambienti anonimi, con la tappezzeria triste che sa di incontri furtivi, di appuntamenti di lavoro e solitudine.
La mattina rassettava le stanze, i corridoi, lucidava gli specchi dell’atrio; il pomeriggio saliva all’ultimo piano e sognava.
Capitava, ogni tanto, che qualcuno dimenticasse un oggetto, unico segno del suo passaggio allora Viola lo portava nella sua cameretta, dove nessuno sarebbe entrato a fare domande. Una camicia da notte, uno spazzolino, un foulard di seta giallo, profumato di lavanda o un anello di bigiotteria, la foto di un bambino, il tappo di un rossetto. Intesseva storie intorno a quelle tracce di vita, riempiva pagine di avventure: l’ereditiera fuggita di casa, il giovane genio della matematica, la coppia di amanti stranieri, la madre in cerca del figlio, tutte storie che restavano rinchiuse nella sua timidezza.
Un giorno certo avrebbe trovato il coraggio, avrebbe pubblicato tutti i racconti e sarebbe volata via. Avrebbe allora soggiornato nelle stanze di un castello, dove qualcuno avrebbe preparato un letto per lei con soffici cuscini, e lì Viola avrebbe lasciato qualcosa di sé. Intanto ogni notte si affacciava dalla sua stanza a guardare le strade con le auto che sfrecciavano, aspettando altre vite e altre storie.