Era una calda mattina di agosto quando sono andata via ed è stato in una calda mattina di agosto che questa casa ha visto i primi occhi chiudersi per sempre.
E’ quasi primavera quando torno e le stagioni si sono susseguite lentamente in queste stanze che hanno visto altri occhi chiudersi.
Cerco le lanterne verdi vicino al portone.
Non mi sono mai piaciute, ma ora spero che ci siano ancora, per accogliermi mentre entro di nuovo qui.
La mia mano trema sulla maniglia, il mio piede rimane per un pò fermo sulla soglia. Poi oltrepassa gli anni, i mesi, gli occhi chiosi per sempre, il Natale, la Pasqua, i racconti dei grandi che ascoltavo seduta sulla mia sediolina di legno, accanto alla porta della cucina.
Le mie risate di bambina risuonano nell’ingresso e sono sul dondolo verde e azzurro che mio zio ha costruito apposta per me. “Papà, mi spingi? Mamma guarda come volo.Vieni anche tu.”
Dindolon, dindolon…

Arriva mia cugina e il nostro abbraccio dura per tutto il tempo che non ci siamo viste. Lo volevamo da tanto e finalmente eccoci qua.
Stiamo correndo a perdifiato in giardino, saltando di qua e di là, schizzandoci con l’acqua della fontanella, ora ci riposiamo sotto ai peschi.
“Zia, zia ci racconti una favola?” “Venite qui, state sedute un attimo. Allora! C’era una volta un bambino che si chiamava Arancino e con la sua sorellina Susina viveva nel bosco con la mamma e il papà.”
“Paoletta, dormi con me stanotte?” “Si, zia, si!”
Tutto in un abbraccio e ritorno a guardarla negli occhi, quegli occhi così belli da cui mi sciolgo per correre là, là dove le ortensie e le dalie sbocciavano, innamorate di mio nonno.
Levo dal pacchetto i fazzoletti di carta e li butto nella borsa. Lo riempio con un pò di quella terra, di quell’affetto. Lei non ne è stupita, mi conosce bene. E’ stata la mia ombra fino a quando un bel ragazzo del sud non l’ha rapita.

Rientriamo in casa.
“Che ti vuoi prendere?” “Non so!” rispondo, ma io so cosa vorrei portare via con me.
Vorrei portare via, stringendole tra le mie braccia, le emozioni di queste stanze, dove siamo nati, dove siamo morti, i nostri cuori, i nostri impulsi, le nostre ragioni, i distacchi, i desideri, i discorsi e i fiori del nostro giardino.

Arriva anche Agnese. I più piccoli di noi e Angelo non sono voluti venire. C’è chi non vuole più vedere e chi non riesce a lasciar andare i ricordi.
Io e Agnese siamo davanti al vecchio baule di zia Emma e quando lo apriamo, io so cos’altro voglio portare via con me.
L’amore suo e di zio Lele.
Si, voglio portare via con me quelle vecchie lenzuola di lino che lei ha ricamato sotto lo sguardo prezioso di mia madre.
Le voglio portare via, stenderle nel mio letto e fargli vivere quelle notti d’amore che non hanno mai vissuto.
Quell’amore ostacolato, ma mai domato, nemmeno quel giorno, quando il primo di quei due cuori si è spento.
E lo faccio. Le mie mani stendono le lenzuola sul mio letto e finalmente fanno l’amore tra quel lino grezzo con le iniziali ricamate sopra.

Michela non vuole niente, ma è lei che entra nell’ultima stanza in fondo per svuotarla dei ricordi e cancellare le nostre cicatrici.

Indugiamo davanti al cancello chiuso, nessuna di noi tre vuole girare la chiave e chiudere per sempre con quel pezzo d’anima nostra.
Non riusciamo a guardarci negli occhi, trattengo a forza le lacrime fino a quando Agnese sfila le chiavi di mano a Michela, mentre il sole sta tramontando dietro di noi. Andiamo via di corsa con la scusa che si è fatto tardi, ma in realtà, nessuna vuol far vedere le lacrime che cominciano a rigare le guance.

E mi porto via il profumo dei fiori di pesco, la freschezza dell’acqua del pozzo, la Madre Terra e il bagliore del fuoco che scoppiettava nella stufa.

Arrivo a casa. “Ciao, mamma!”
E l’anima mia è colma di gioia.