Mi chiamo Olindo e la storia che sto per raccontarvi ha dell’incredibile, ma l’ho vissuta veramente ed è stata l’esperienza più bella della mia vita. Avevo compiuto otto anni da pochi mesi, non so come accadde, ma il fatto è che un bel giorno mi ritrovai a vivere nel corpo di una rondine e a migrare verso luoghi di straordinaria bellezza. Tutto cominciò quando feci quella monelleria di buttare giù un nido di rondini abbarbicato sotto la grondaia di casa mia. Due povere rondinelle avevano impiegato ben tre settimane per costruirlo, lavorando sodo tutti i giorni, portando nei loro becchi fili di paglia e fango. Quando lo finirono fui preso da uno strano sentimento, fatto un po’ di dispetto e un po’ di insano divertimento, impugnai un lungo bastone di legno e lo colpii, facendolo cadere giù in mille pezzi. Le due rondini stavano tornando proprio in quel momento e, quando videro la loro casa abbattuta, cominciarono a garrire arrabbiate, compiendo dei voli incrociati sulla mia testa. All’improvviso sentii una forza misteriosa attanagliarmi le braccia e sollevarmi verso l’alto. Ebbi tanta paura e, mentre guardavo con lo sguardo smarrito il mio cane abbaiare e diventare sempre più piccolo, preso dallo spavento, gridai forte: «Mamma, Papà, aiuto!»

 

Mia madre uscì fuori nel cortile, ma proprio in quel momento avvenne la metamorfosi: le mie braccia divennero ali ed io cominciai a volare, proprio come un uccello. Le rondini a cui avevo distrutto il nido mi inseguirono in volo e avevano tutta l’intenzione di punirmi per quello che avevo fatto al loro nido.

 

«Non fatemi del male, vi prego!», esclamai, dopo che mi ero posato sull’antenna di una casa, poco distante dalla mia. «Sei cattivo, e te la meriti proprio una bella lezione!», disse stizzita la signora rondine.

 

«Perdonatemi vi prego!», dissi con voce supplichevole, «ditemi come posso rimediare e farò tutto quello che mi chiederete», aggiunsi.

 

«Bene!», disse il signor rondine, «vogliamo credere nel tuo pentimento, ma se vuoi che ti perdoniamo dovrai aiutarci a ricostruire il nido che hai distrutto.»

 

«Ricostruirlo? Ma io non so farlo… io non sono una rondine come voi, sono un umano e voglio solo tornare a casa dai miei genitori», risposi con convinzione. «Purtroppo per te, caro ragazzo, sei diventato una rondine, esattamente come noi due, ed è stato lo spirito protettore degli uccelli migranti a trasformarti, noi l’abbiamo visto con questi occhi mentre ti gettava addosso il suo incantesimo.» Mi guardai le braccia e vidi che erano ricoperte di lunghe penne nere. Poi mi guardai le piume del corpo e le zampe e mi resi conto che il signor rondine aveva proprio ragione, ero diventato veramente una rondine.

 

«No, non voglio essere una rondine, voglio tornare ad essere un bambino!», esclamai, cominciando a piangere e a singhiozzare. «Non piangere, ragazzo!», disse il signor rondine, con tono affettuoso, «Mi presento, io sono Alfred e lei è mia moglie Irina. E tu come ti chiami?», domandò. «Mi chiamo Olindo!», risposi dopo qualche secondo, ancora singhiozzando. «Olindo, per favore aiutaci a ricostruire il nido e pregheremo per te lo spirito protettore degli uccelli migranti, affinché ti faccia ritornare ad essere di nuovo un bambino umano, che ne dici?» Accettai di aiutarli e per due settimane volai con loro, avanti e indietro, portando nel becco fili d’erba e fango per completare il prima possibile l’opera e tornare ad essere di nuovo un bambino come lo ero prima. Vedevo tutti i giorni mia madre e mio padre disperarsi, perché non sapevano che fine avessi fatto, e io non potevo far nulla per consolarli. «Mamma, papà, sono Olindo! Aiutatemi, sono diventato una rondine!», gridai un giorno, mentre volavo basso sulle loro teste per farmi sentire, ma il mio grido d’aiuto era per loro solo un incomprensibile garrito di una rondine e ignorarono completamente le mie richieste d’aiuto. Passarono due settimane e il nido era finalmente ultimato. Fummo tutti molto felici e dopo esserci abbracciati affettuosamente – il loro modo di abbracciarsi è protendere in avanti le ali, gli uni verso gli altri – pregammo insieme lo spirito che mi aveva trasformato in rondine, ma non accadde un bel nulla, e alla quarta settimana io ero ancora una rondine ed ero costretto a mangiare insetti per sopravvivere. Nel frattempo si dischiusero le uova che Irina aveva deposto nel nido e da quelle uova nacquero tre bei rondinini, due maschi e una femmina che Alfred e Irina chiamarono: Joseph, Benjamin ed Elsie. I rondinini crescono in fretta e in pochi giorni erano già capaci di volare e cacciare insetti. Diventammo molto amici i figli di Alfred ed io e passammo tutta l’estate insieme a volare e a cacciare insetti, finché arrivò settembre e si prepararono per migrare verso l’Africa, ma io decisi di non andare con loro, volevo restare a casa con i miei genitori. Anche se non potevo parlare con loro, mi rincuorava l’idea di averli vicino. Il giorno prima della partenza, Alfred cercò di convincermi a partire con loro, «ragazzo mio, se non verrai con noi morirai», disse, «sei una rondine e il freddo dell’inverno ti ucciderà, capisci?», aggiunse col tono affettuoso di un padre. Arrivò il giorno della partenza e ci riunimmo per l’ultima volta, tutti insieme, sul fil di ferro teso sul balcone di casa mia, quello che mia madre usava per stendere i panni.

 

«Olindo, ti prego, vieni con noi. Se resti morirai e quando torneremo a primavera non ci sarai più», disse Elsie. Ero indeciso, non riuscivo a risolvermi sul da farsi, ma quando spiccarono il volo per partire, mi feci coraggio e volai via con loro. Facemmo un lungo viaggio, dalla Campania alla Sicilia, insieme ad altre rondini e ad alcuni altri uccelli migranti. Arrivati in riva al mare ci riposammo per un giorno intero, perché il giorno dopo avremmo dovuto attraversare il mare, un volo senza sosta. Partimmo di mattina presto e, dopo aver volato a lungo senza riposarci un attimo, arrivammo sulle coste della Tunisia, dove ci riposammo ancora per un giorno intero, perché il giorno dopo avremmo dovuto attraversare il deserto, un percorso ben più arduo della traversata del mare. La migrazione fu lunga e faticosa, ma dopo tanto volare, finalmente arrivammo in Botswana, sul delta del fiume Okavango. In quel posto dove il fiume moriva per dissetare il deserto, si riunivano molti animali, c’era da bere per tutti ed era un posto bellissimo. Le albe erano fresche e luminose e i tramonti accendevano di colori sfavillanti le oasi sul delta del fiume. Anche il cielo notturno era uno spettacolo, le stelle si contavano a milioni e sembrava quasi di poterle toccare. Fu proprio contemplando quei meravigliosi tramonti e quei cieli stellati che Elsie ed io ci innamorammo, e quando a primavera ritornammo in Italia, il nido di Alfred e Irina, che era ancora al suo posto sotto la grondaia, divenne nostro, e in quel nido ci amammo e nacquero i nostri figli. Riuscii appena a vederli uscire dai loro gusci i miei tre implumi rondinini, e a sentirli pigolare con i becchi all’insù. In quel preciso istante, caddi dal nido e, mentre venivo portato a terra da una forza misteriosa, tornai magicamente ad essere di nuovo un bambino umano. Durante quella metamorfosi che durò pochi secondi, riuscii a sentire per l’ultima volta la voce della mia dolce Elsie che gridava il mio nome, dopodiché sentivo solo una rondine cinguettare, mentre volava sopra la mia testa. Dopo oltre un anno da quell’ avventura, in compagnia delle rondini, riuscii finalmente ad abbracciare mia madre e mio padre che furono molto felici di rivedermi vivo, ma non riuscivano a credere alla mia storia. A settembre vidi mia moglie Elsie ripartire verso l’Africa, con i nostri tre figli, e provai un profondo senso di nostalgia. È strana la vita: ero stato nostalgico del ritorno a casa, dai miei genitori, e ora che li avevo riabbracciati ero nostalgico dei giorni passati in Africa con Elsie e la sua famiglia; e adesso con loro c’erano anche i miei figli. Aspettai con ansia l’arrivo della primavera, per vederli tornare, ma non tornarono, né mia moglie né i miei figli. Per molti giorni rimasi a guardare se nel nido ci fosse qualcuno, ma era sempre vuoto. Un bel giorno vidi arrivare una rondinella che venne a posarsi sulla mia spalla che aveva nel becco una lunga penna nera. La presi e subito dopo la rondinella cominciò a cinguettarmi qualcosa all’orecchio. All’inizio non capivo quelle garrule parole, ma dopo un po’ cominciai a capire quello che mi diceva: «Papà, sono tua figlia Irina, purtroppo la mamma non ce l’ha fatta a superare il deserto, e i miei due fratelli sono migrati altrove con le loro mogli. Quella che hai in mano è la penna di un’ala della mamma, conservala in ricordo del suo grande amore per te. Addio papà!», e volò via.