«Riposa le tue membra stanche, Patroclo, smetti di angustiarti!».
Il Meneziade si tolse l’elmo bronzeo e passò la mano tra i capelli sudati, scostando un ciuffo che era sceso sulla fronte.
«E come posso, amico, quando sono nove anni che combattiamo all’ombra di quelle mura alte cinque braccia che incombono sopra di noi come un funebre catafalco?».
«Quelle mura non resisteranno in eterno, e se non saranno loro a cadere vorrà dire che uccideremo i difensori di Troia uno ad uno» rise Achille.
«Però tu oggi ti ritiri dalla battaglia e sottrai il tuo valore ai compagni morenti!».
Achille si alzò in piedi, furente, ma trovatosi di fronte all’amico subito si quietò.
«Quali compagni, Patroclo, quali amici? Chi tra gli Achei non ci tradirebbe cento e cento volte? Dovrei ancora combattere per Agamennone, la cui tracotanza lo spinse ad oltraggiare Apollo rapendo la bella Criseide e a far sì che il dio punisse con la pestilenza tutti i Greci? Quale onore ci fu per i guerrieri morti senza versare il loro sangue in battaglia? E non fu ancora Agamennone, mai pentito, a rubarmi Briseide per consolarsi della perdita?».
Patroclo ascoltò la sfuriata del compagno annuendo di tanto in tanto. Conosceva la storia, ma lo feriva l’accenno alla schiava, e se non avesse saputo che a far infuriare Achille era stata l’offesa e non la perdita della ragazza la gelosia l’avrebbe fatto avvampare..
Achille si rese conto di aver detto una frase che avrebbe dovuto tacere, e scrutò il volto dell’amico. Con una mano ne sfiorò la fronte ancora grondante sudore e se la portò alle labbra.
«Sai che non volevo offenderti, amico mio. Ti prego, resta con me nella tenda».
Ma Patroclo già aveva ripreso le armi.
«Dopo, Achille» disse, «la battaglia mi chiama e il fragore delle spade giunge fino qui, non lo senti? Non sono stato oltraggiato come te, e non posso tradire la mia gente perché tradirei il mio onore».
«Prendi almeno le mie armi! Porta il tuo valore insieme ai miei stendardi, così che i nemici tremino per la tua furia».
Patroclò esitò alcuni istanti, poi si rese conto che la sua apparizione nelle vesti di Achille avrebbe portato lo scompiglio nelle file troiane e acconsentì, spogliandosi rapidamente.
Achille lo abbracciò e i due amici restarono alcuni istanti avvinti, poi Patroclo si staccò e cominciò ad indossare le gambiere, la corazza aderente al corpo, l’elmo crestato. Raccolse poi la lancia e la spada dell’amico, che lo aiutava nella vestizione, e prima di lasciare la tenda si fermò di fronte a lui.
«Vai» disse Achille, rispondendo al suo muto saluto «porta altra gloria alle mie armi, ma non spingerti fino alle mura: ritorna, ti prego!».
Patroclo assentì brevemente, la mente già alla battaglia, si voltò ed uscì.
«Il Meneziade portò terrore e scompiglio tra i difensori di Ilio, e la sua lancia trafisse innumerevoli nemici finché questi, terrorizzati, presero la fuga» disse il messaggero.
«Ma non ha voluto ascoltare il mio consiglio!» esclamò Achille disperato.
Il vecchio abbassò il capo in segno di lutto, rivolgendo gli occhi spenti al suolo.
«È così, Pelide Achille. Il suo coraggio e il suo impeto lo portò ad inseguire i troiani fin sotto le mura, e a prenderle d’assalto. Certo le avrebbe espugnate se…».
«Se cosa, vecchio? Cosa è accaduto poi?».
«A volte la mente vede cose che gli occhi non vedono, mio signore. Nessuno avrebbe potuto contrastare il valore di Patroclo, ma fu un dio, Apollo…».
«Apollo! Ancora lui!».
«Sì, Apollo due volte lo colpì alla nuca per respingerlo dalle mura, poi fu Euforbo a ferirlo con la lancia alle spalle e infine Ettore lo uccise, trapassandolo dalla sua biga».
«Ah, i traditori!» proruppe Achille stracciandosi le vesti «solo così potevano ucciderlo: alle spalle e con l’aiuto del dio!».
«Così fu, mio signore».
«Lo vendicherò, costi quel che costi!».
«Menelao lo ha già fatto, Achille. Ha trapassato Euforbo con la spada e il sangue gli è schizzato sui capelli. Poi gli achei hanno conquistato le sue armi».
«E il suo corpo?».
«Quello lo ha ripreso Ettore, riportandolo in Troia».
«Ucciderò anche Ettore, e se Atena mi assiste anche Apollo assaggerà la punta della mia lancia!».
Il vecchio fece un passo indietro, spaventato dalla bestemmia di Achille.
«Dunque tornerai a combattere?» chiese.
«E io non scrissi nel mio poema la risposta del Pelide, ma narrai che Achille invocò Efesto, il dio delle forge, che lo armò nuovamente, quindi, eseguite le onoranze funebri all’amico scomparso e averne a lungo pianto la morte – lui che mai aveva versato lacrime per alcuno – tornò sul campo facendo strage di nemici fino a scontrarsi con le stesso Ettore, ad ucciderlo e come estrema umiliazione ne trascinò il corpo legato al suo carro fino al campo Acheo».
«Quante morti, quanto dolore!» mormorò il giovane pastore mentre conduceva il vecchio per mano tra le rovine di Troia.
«Ma quanta gloria, quale splendido fulgore di armi! Che valore, che passione!» esclamò questi, rapito.
«Dove sono gloria e passione ora?» rispose il giovane «io vedo solo tumuli e ossa biancheggiare sulla spiaggia nera».
Il vecchio raccolse da terra un lungo osso su cui aveva messo il calzare, lo palpeggiò come per riconoscerlo e lo gettò nuovamente».
«Quante di queste persone sapevano davvero quello che facevano?» si chiese.
«Forse obbedivano al volere degli dei», rispose il ragazzo, credendo che parlasse a lui.
«Gli dei?» esclamò il vecchio, fermandosi e rivolgendo gli occhi al cielo «gli dei non sono che sogni coscienti, voci che parlano nella mente di uomini inconsapevoli di sé. Forse sono la traccia che hanno lasciato dei sovrani passati nel ricordo dei sudditi, e parlano loro attraverso voci immaginarie».
«Chi può saperlo?».
«Non io. Quasi tutti gli uomini non sono capaci di pensare con la propria mente ma sono guidati da voci interiori che credono siano degli dei».
«Anche io?».
Il vecchio si voltò verso il ragazzo e gli pose una mano sulla fronte.
«Non lo so» rispose ritraendola.
«E tu?» chiese il ragazzo.
«Io? No, io sono Omero».