HITLER, DI IAN KERSHAW Un giorno era arrivato l’orrore, nella sua forma più pura, quasi inimmaginabile. Un uomo voleva edificare un Paradiso su un Inferno, ergendosi fino al cielo su cataste, montagne di corpi. Uomini, donne, vecchi, bambini, colpevoli solo di esistere, in quanto ebrei. Dovevano essere uccisi, ma prima di tutto spogliati, umiliati, annientati nella loro intima essenza, magari costretti a ballare scalzi, pisciare sulla Torah, o attraversare l’Europa su carri bestiame, in mezzo ai loro escrementi. Non erano umani. Erano soltanto dei Giudei, simili a batteri. Tanto valeva gasarli, e non pensarci più. Alla fine sarebbero morti a milioni, travolti da una spirale d’odio che già esisteva, era nell’aria. Il primo scoppio era stato nel 1914, a Sarajevo. Ma ancora non bastava. Era necessaria un’altra tempesta, questa volta per mano di un mostro. Si chiamava Adolf Hitler.
Come scriveva Alessandro Piperno, si approssima il giorno – sobriamente vestito da giorno qualunque – in cui anche l’ultimo sopravvissuto dei campi finirà per morire, ucciso dalla vecchiaia. Allora non avremo più testimonianze vive, reali, di ciò che è accaduto, ma solo immagini e scritti. Così non sarà più lo stesso. Il ricordo dei lager – scabri musei dell’orrore – probabilmente resterà, ma in un modo del tutto diverso. Insieme a loro cambierà la nostra memoria, e in essa l’immagine del Fuhrer, cioè di colui che aveva osato non solo concepire, ma anche realizzare tutto questo. La sua fantasia, nella sua perversione, si era spinta dove nessuno – neanche il più mostruoso dei narratori – sarebbe mai potuto arrivare. Già questo è abnorme.
Su Hitler esistono ormai decine, centinaia di libri. Alcuni autentici capolavori – come quello di Fest, o di Peter Longerich – altri un po’ sciatti, scritti per fare cassetta su un personaggio storico fra i più famosi. Questo di Ian Kershaw è probabilmente il vertice della storiografia hitleriana. Un’opera imprescindibile, accurata e profondissima sotto ogni punto di vista. Impossibile parlare di Hitler, e del nazismo, senza passare di qui. La sua grandezza è in molti punti: lo stile, la precisione, l’accuratezza delle fonti, e ancora di più nel metodo.
Il libro coniuga un approccio biografico ad un altro più sociologico. Senza Hitler, indubbiamente, non sarei mai esistito né il nazismo né i lager, forse neanche la Seconda Guerra Mondiale; è uno dei pochi uomini senza i quali, la Storia dell’Uomo sarebbe stata diversa. Ma nessuno avrebbe fatto niente di simile, se non avesse incontrato certe forze storiche. L’istinto di revanche della Germania, la crisi economica (attenzione: più il ’29 che l’iperinflazione degli Anni Venti, come si dice spesso), la devastazione della Prima Guerra Mondiale, l’antisemitismo, un certo wagnerismo, una cultura della Decadenza e della Scienza Pura (in molti paesi, allora all’avanguardia, l’eutanasia verso dementi, omosessuali e alcolizzati era considerata con grande favore da diversi scienziati, anche fra i socialdemocratici). La paura del Comunismo, che incombeva alle porte, con un altro carico di distruzione. Tutto vero, eppure… i conti non tornano, se non si va a Hitler, alla sua vita. Allora qual è il metodo? Che filo dobbiamo seguire?
Come dice Kershaw, già nelle prime pagine, bisogna comprendere la natura del potere di Hitler, ciò che lo ha reso il Fuhrer. E’ l’unico modo per spiegare il nazismo. Hitler non è stato un politico come gli altri. Già dai tempi del primo putsch, compiuto a Monaco nel ’23, si era ammantato di un’aura magica, ideale, in cui le sue gesta venivano proiettate su una sfera superiore, inarrivabile per gli altri esseri umani. Indubbiamente sapeva parlare in pubblico. Aveva un fascino magnetico, tanto più che aveva fatto tesoro di un libro fondamentale – la Psicologia delle Masse, di Gustave LeBon. Sapeva che la massa era femmina, doveva essere prima compattata, convogliata, e poi invasa da un singolo oratore.
Un uomo che in fondo non era mai stato nessuno – una non-persona – del tutto priva di affetti, amicizie, radici, legami stabili. Un nomade che aveva vissuto di espedienti, ai margini della società, con qualche velleità da pittore; capitato a Monaco quasi per caso, si era trovato al centro della Storia, senza nemmeno saperlo. Il resto sarebbe venuto con l’esperienza, e con le astuzie dei suoi migliori collaboratori: Albert Speer, Joseph Goebbels e Leni Riefenstahl La potenza dei raduni e dei cinematografi l’avrebbero reso una star, dalla capacità sovrumane, piena di forza e pura volontà.
Nessuno sa dove sia nato il suo odio per gli ebrei. Non ne aveva mai incontrato uno, nella sua vita, se non in trincea. Con un altro, il medico che aveva tentato di curare sua madre, Klara Polzl, aveva avuto l’esperienza di un uomo buono, dedito al suo lavoro. Eppure già nel ’19, di ritorno dalla Guerra, leggiamo in sua lettera che gli ebrei vanno sterminati (vernichtend). Non avrebbe mai più cambiato idea. La sua paranoia lo avrebbe portato a identitificare negli Ebrei il Male, lo Sporco, il Sudicio, tutto ciò che rende orribile la vita, e dunque va eliminato. Solo così sarebbe potuta esistere la Nuova Europa, e un mondo germanico, edificato sui principi della forza e della razza.
Non esistono prove scritte che Hitler abbia dato quell’ordine, della Soluzione Finale. Esiste solo un decreto controfirmato da Goring, e da questi affidato al SS – Obergruppenfuhrer Reinhard Heydrich. Ma questo non significa che lo Sterminio sia avvenuto fuori della sua volontà, addirittura a sua insaputa. E’ vero il contrario. Hitler ne è stato fin da subito il primo ispiratore, il motore immobile della macchina di annientamento. Non sarebbe mai successo senza di lui. Perché il potere del Fuhrer – ed è qui che il libro si rende preziosissimo, quasi insostituibile – aveva una natura particolare: era al di sopra delle fazioni e dei partiti, oltre ogni comprensione. Si doveva accettarlo e seguirlo, senza fiatare (con questo, l’idea di uccidere donne e bambini, per molti, era un fatto da accettare con estrema gioia, e da perseguire con zelo, fino alla fine, anche dopo che la Guerra era perduta). Il Fuhrer non aveva bisogno di dire “fate questo”, “uccidete quello”: bastava un vago accenno, dato alle alte sfere SS, perché l’orrore si realizzasse. Il resto non era affar suo. Nessuno schizzo di sangue poteva lordare la sua splendida divisa, decorata di svastiche.
Potrei parlare per ore di questo libro, e non sarebbe abbastanza. Credo di avergli dedicato molti giorni, e ne è valsa la pena. Da allora ne sono stato trasformato. E’ vero, ci sono molte cose in Hitler, nei campi e nel nazismo che superano la nostra comprensione. Ma se c’è qualcosa di intellegibile, in questo orrore, allora abbiamo il dovere di provarci. E non possiamo farlo senza Kershaw. Non è solo uno storico di vaglia, ma anche un grande narratore. Conosce molte pieghe dell’animo umano, soprattutto quelle che non possiamo confidare a nessuno, nemmeno a noi stessi. Alla fine resta una domanda: chi è stato, cosa è stato Hitler? La risposta è molto semplice, addirittura terrificante: una non-persona, in cui ognuno ha potuto specchiarsi. Ritrovando ciò che sentiva, e in particolare il suo odio. Come ha detto un soldato in Vietnam, “di sicuro non siamo la prima specie al mondo perché siamo buoni”. Per questo Hitler ci è riuscito: è stato lui a concepire, primo fra tutti, di cosa è capace l’uomo. Ora grazie a lui lo sappiamo. Non ha un nome, ma assomiglia moltissimo all’Inferno. Un posto dove non ci sono demoni, ma soltanto uomini. E la loro fantasia.