Quel giorno, mi svegliai tardissimo, avevo dimenticato di puntare la sveglia e, per la fretta, con un gesto maldestro, rovesciai la tazzina del caffè sul tavolo e sul pavimento e, per non farmi mancare niente, sulla vestaglia di velluto rosso, alla quale tengo molto perché è un regalo di compleanno delle mie figlie.
Asciugai per terra imprecando tra i denti, pulii il resto alla meglio e preparai un’altra caffettiera, intanto che controllavo la borsa porta documenti, poi pescai a caso nell’armadio qualche indumento da indossare maledicendo la cattiva sorte.
«Niente doccia stamattina», esclamai mentre ingurgitavo la bevanda senza poterla gustare come il solito.
Questo fatto mi contrariò ancora di più perché le mie abitudini mattutine sono sacre e quando mi sveglio, sono poco loquace e intrattabile di mio, figuriamoci quel giorno.
Persino i miei capelli sembravano la criniera arruffata di un leone arrabbiato; naturalmente non riuscii a domarli e decisi di lasciarli stare.
Girai per casa come una trottola, mi lavai, mi truccai, mi vestii saltando dentro a un paio di jeans, misi una maglietta qualsiasi; calzando le scarpe inciampai nel tappeto, scivolai, presi una storta e rischiai di schiantarmi contro l’armadio, infilai la giacca senza abbottonarla e uscii.
Rientrai subito dopo perché avevo dimenticato le chiavi dell’auto, l’ascensore era occupato e preferii scendere a piedi le scale e, finalmente, salii in auto e partii sgommando.
Erano le otto e venti ed ero già stravolta!
Arrivata in città, entrai nel parcheggio a pagamento, che a quell’ora del mattino è ancora semivuoto e, poiché avevo solo l’imbarazzo della scelta, sistemai l’auto lasciando un posto vuoto dal lato guida per uscire più comodamente ma, arrivò un’auto che parcheggiò vicino alla mia e feci fatica a uscire:
«Accidenti a te», imprecai a denti stretti all’indirizzo del conducente dell’auto che se n’era andato, tranquillo e beato per la sua strada, «ci saranno almeno cinquecento posti liberi e dovevi parcheggiare proprio qui accanto alla mia?».
«Cos’è, il tuo posto riservato?», osservando quasi con rancore il grande parcheggio semi deserto.
Altro segnale premonitore di grane in arrivo che scacciai prontamente dalla mente per non farmi venire l’ansia da sola.
Mi avviai a passo veloce, attraversai i giardini ben curati adiacenti al parcheggio senza neanche vederli e, come ovvio, arrivai in ufficio con il fiato corto.
Appena entrata, osservai la montagna di pratiche urgenti che dovevo evadere quasi con odio.
Il resto della mattinata marciò a ritmo serrato: suonava il telefono fisso in contemporanea con il mio cellulare, mettevo in attesa qui per rispondere di là, e via così.
Saltai la pausa caffè considerando che era tardi e che ero già sufficientemente nervosa.
Riuscii a finire tutto in tempo utile per non arrivare a casa a un’ora impossibile.
Ero quasi soddisfatta di me.
«Finalmente», sospirai, «che mattinata caotica, oggi pomeriggio spero di non avere grane e di potermi rilassare», pensai speranzosa.
Scesi in strada e, passando sotto i portici della via principale, m’incamminai di buon passo verso il parcheggio.
Arrivata sulla piazza, attraversai sulle strisce pedonali ma, mentre stavo per raggiungere il marciapiede opposto, sopraggiunse un’auto a velocità abbastanza elevata, il conducente, con il cellulare in mano, non mi vide e, se non fossi stata pronta a fare un balzo indietro, sono sicura che mi avrebbe investito senza accorgersi di nulla.
Rimasi ferma in mezzo alla strada rigida come una statua per alcuni secondi con il cuore che batteva forte e mi rimbombava nella testa come un martello.
Il conducente pirata continuò la sua corsa, senza accorgersi di nulla ma, quello dietro di lui, che aveva osservato la scena, scese dall’auto e si avvicinò a me preoccupato:
«Signora, tutto bene?» e lanciò un urlo in dialetto ligure, all’indirizzo dell’incosciente conducente:
«Mia ‘stu nesciu de n’imbecille».
«Macacu!», che significa:
«Guarda questo stupido di un imbecille».
«Macaco!», (riferito proprio alla scimmia) accompagnato da un gestaccio con il dito e, rivolto a me:
«Vuole un bicchiere d’acqua, tutto a posto?
«È molto pallida, si sente bene?»
Accorsero alcuni passanti che avevano assistito alla scena che, costernati dal comportamento dell’incosciente conducente, commentarono sconcertati l’accaduto.
Nel frattempo mi ero ripresa dallo spavento, il cuore rallentò il ritmo e ripresi colore:
«No, la ringrazio, troppo gentile, ma c’è mancato poco», sussurrai con un sorriso forzato.
Mentre proseguivo per la mia strada, con le gambe un po’ molli, riflettevo su quanto fosse diventato pericoloso attraversare la strada, specialmente in quel particolare tratto di strisce pedonali perché erano poste dietro l’angolo del palazzo e impedivano la visuale ai conducenti, soprattutto se invece di guardare la strada, svolgevano altre attività.
Decisi che sarebbe stato più prudente, da quel momento in poi, fare il giro della piazza.
Una quindicina di giorni dopo, verso la una, quando uscii dall’ufficio, trovai le strade del centro, completamente bloccate; le auto erano ferme, gli automobilisti furiosi e insofferenti.
«Che succede?», mi chiesi osservando dal marciapiede il caos che mi circondava.
Poco dopo arrivai sulla piazza e vidi un agglomerato di persone in mezzo alla strada, due auto della polizia e un’ambulanza, che ostruiva la parte opposta della piazza.
«Qualche manifestazione in corso», pensai, ricordando quella di qualche giorno prima che aveva bloccato la città per quasi due ore.
«Non se ne può più, tutti protestano senza rendersi conto che chi ci va di mezzo, alla fine, è sempre la povera gente che non c’entra nulla».
Feci comunque il giro largo della piazza e quando arrivai sul lato opposto, proprio dove ci sono le “famose” strisce pedonali, vidi un signore disteso per terra:
«Che è successo?» chiesi a una donna davanti a me che allungava il collo per vedere.
«Hanno investito un pedone», affermò senza distogliere gli occhi.
Il mio cuore ebbe un sussulto e non potei trattenermi dall’esclamare:
«Lo sapevo io che alla fine sarebbe successo».
«La vita è davvero piena di pericoli, potevo esserci io al posto di quel poveretto», considerai guardando la mia città con diffidenza e una punta di disapprovazione.
Mentre mi avvicinavo al parcheggio, sospirai:
«Andare a piedi in città oggigiorno, penso sia diventato più pericoloso di un percorso sulle sabbie mobili o di un percorso nella giungla!».
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