Universi

Angie Rose ed Hamlet s’erano avventurati al parco nonostante il tempo minacciasse pioggia. Sarebbe stata una passeggiata breve ma indispensabile alle esigenze del cane che quella sera probabilmente, proprio a causa del cattivo tempo, non avrebbe potuto portare con sé.

Era stato un inizio di primavera freddo e piovoso, con pochi colori e senza troppa poesia. Le piogge frequenti avevano infoltito il suolo di erbette e fiori spauriti, che schiaffeggiati dal vento e insultati dall’acqua, sfiniti declinavano le corolle ancora acerbe a marcire in quell’humus vegetale. Hamlet, attratto dalle loro ingannevoli macchie nell’erba, si fermava ad annusarli nel loro ultimo, evanescente profumo, per poi mestamente tornare sui suoi passi, Avevano raggiunto l’area riservata ai cani, Angie Rose lo aveva sciolto dal collare, lasciandolo  libero di correre ed esplorare, mentre lei, seduta su una panchina, si predisponeva a leggere un libro, senza però perdere di vista Hamlet che  ora giocava con altro cane, anche quello un lupo, a rincorrersi e  riportare indietro una palla rossa che qualcuno, dall’altra parte del viale, lanciava. Dei soliti che frequentavano il parco con i loro cani, e con i quali aveva un cordiale scambio di saluti e di battute, a quell’ora non ve n’era nessuno, ma Hamlet aveva comunque trovato un compagno di giochi, e lei l’opportunità di terminare la sua lettura.
S’era alzato un vento leggero che recava stille di pioggia frammiste ad un lieve sentore di fragola, ed era ormai ora di avviarsi verso casa dove avrebbe velocemente pranzato per poi correre alle lezioni di Alfred Hayden. Diede di voce ad Hamlet che, accomiatandosi dal nuovo compagno di giochi, era prontamente corso al suo richiamo.

Lungo le scale propagava un buon odore di cucina e Angie Rose sospirò alla prospettiva del suo pasto preconfezionato, inodore ed insapore. Avrebbe comunque recuperato con la sempre ottima cena al ristorante di Gina, prima dell’orario di apertura, insieme a tutti gli altri dello staff.
Era giunta al pianerottolo del secondo piano quando cui Olimpia Collins, in tuta e bigodini, aprì la porta.
«Ciao Rose (la chiamava solo Rose perché quello era il nome di una delle sue figlie)  hai tempo? Vorrei mostrati una cosa». Con un cenno della mano la invitò ad entrare.
Olimpia Collins aveva sempre un pretesto per farti entrare a casa sua per scambiare due parole. Angie Rose ricordò la prima volta che era stata abbordata dalla vecchia signora con la scusa d’infilarle un ago da cucito.

«I miei occhi non sono più buoni, nonostante questi.» Le aveva sorriso e indicato gli occhiali dalla montatura antiquata
«Forse dovrebbe rifare le lenti» Aveva suggerito, con garbo, Angie Rose.
Con un gesto della mano, Olimpia, aveva scacciato quell’ipotesi e indicando lo spiraglio della porta della camera da letto da cui s’intravedeva un uomo adagiato supino, aveva detto «Ho altre priorità.»
Così aveva conosciuto anche Bob, il marito di lei, affetto da una malattia degenerativa che gli aveva atrofizzato prima i muscoli e poi i sensi. Le loro due figlie, Rose e Margareth, vivevano in altri stati, e la lontananza e il tempo avevano reso sempre più sporadici i loro incontri, che alla fine s’erano ridotti ai solo contatti telefonici. A casa dei Collins la radio era sempre accesa e ad un volume piuttosto alto, e questo era costante motivo di discussione con gli altri inquilini: «Ma perché non la metti in camera di Bob così può ascoltarla ad un volume più basso?» qualcuno le aveva suggerito.
«Bob è completamente sordo, che se ne fa della radio?» Aveva risposto Olimpia: «Sono io che l’ascolto, ma ad un volume più basso non potrei sentirla da una stanza all’altra.»

Era il silenzio, l’assillo di Olimpia. E la solitudine. Per questo stazionava sulla porta per abbordare chi era di passaggio, e ascoltare la radio, ventiquattro ore su ventiquattro, ad un volume elevato.
Angie Rose lo aveva capito e avrebbe voluto fare qualcosa per lei, ma oltre ad accettare un invito per un caffè o scambiare due parole sul pianerottolo, non aveva tempo per altro.
«Scusami, Olimpia, ma oggi vado proprio di fretta.» Cercò di tagliar corto, ma l’altra la trattenne per un braccio: «A qualunque ora rientri, prometti di venire a vedere. E’ della massima importanza.»
Angie Rose promise.

Dal Queens, dove lei abitava, raggiunse in metro il quartiere Dumbo, dove in una ex cartiera ristrutturata risiedeva la prestigiosa “Alfred Hayden’s Acting Shool”, e fece il suo ingresso proprio mentre stava andando in scena la parte finale di una furibonda lite tra Alfred Hayden e Jason Taller, uno degli studenti.
E non stavano recitando.

«…ti assicuro, Taller, che non metterai più piede in nessun’altra scuola di recitazione di questo stato.» Hayden scandì la minaccia con rabbia, stringendo i braccioli della sedia a rotelle e sporgendosi col busto in avanti, nel tentativo di mettersi in piedi per sbatterlo lui stesso fuori dall’aula.
Jason accolse quella minaccia con un’alzata di spalle: «Vorrà dire che passerò direttamente al palcoscenico.»  Poi, in tono amaro, aggiunse: «Hayden, nel tuo passato sarai stato anche un grande attore ma nel presente, come uomo, vali meno di zero.» Disse avviandosi alla porta
«Cosa ne sai Taller di come deve essere un uomo?» Lo schernì sarcastico, Hayden
A quella provocazione Jason era tornato indietro col chiaro intento di sferrargli un pugno, ma poi si fermò: «Non mi abbasserò al tuo livello, Hayden.» Lanciò un’occhiata circolare al silenzioso auditorio degli studenti: «Per quanto ancora continuerete a farvi bullizzare da lui?» Domandò tagliente.
Senza attendere risposta, uscì dall’aula.«Visto che non lo sai, Taller, di come deve essere un uomo?» Urlò Hayden. Poi, in tono gelido, congedò i suoi allievi: «Per oggi la lezione è terminata.»
Nessuno di loro obiettò.

Fuori, in gruppo, si stava ancora commentando l’accaduto e Angie Rose chiese spiegazioni sui motivi del litigio.

«Ha tolto a Jasmine Wright la parte di “Anna Christie”, adducendo che lei non era all’altezza di quel ruolo che competeva, invece, ad una prima donna del calibro di Jason Taller.» Spiegò Peter Newton ridendo divertito «Poi ha chiesto chi di noi ragazzi si proponeva per la parte di Mat.» Rise ancora più forte «C’è da dire che Hayden ha un perverso senso dell’umorismo.»
«Peter, sei un povero stronzo!» Christine Logan esclamò con disprezzo, accingendosi a spiegare ad Angie Rose la dinamica dei fatti: «Jason aveva lo smalto alle unghie, è stato quello a mandare Hayden in paranoia, così quando Jasmine ha iniziato a leggere le sue battute lui l’ha interrotta dicendo che non era nel personaggio, che Anna Christie era una prostituta abituata a mentire sulla sua vera identità, per cui quella parte sembrava scritta proprio per Jason Taller, che di certo l’avrebbe meglio, e più di chiunque altro, realisticamente interpretata: “oltretutto, Taller, si è presentato in costume di scena” il riferimento era, appunto, allo smalto alle mani»
«Non c’è niente di divertente» S’intromise Andrew Saint Just vibrante di rabbia: « Hayden è un maledetto figlio di puttana»
«Ammettilo, vorresti anche tu smaltarti le unghie ma non ne hai il coraggio.» Lo schernì Peter Newton.
A quella provocazione Andrew gli si avventò contro gettandolo a terra. «Non vali i miei pugni e neppure il mio disprezzo.» Disse, voltandosi per andar via. Ma Peter si rialzò, lo afferrò per le spalle e con una violentissima spinta lo mandò a sbattere contro un muro. Andrew cadde al suolo privo di sensi.

«E’ stato lui ad iniziare. Lui mi ha mandato a terra. Lo avete visto tutti. Io mi sono solo difeso.» Peter Newton, smarrito, cercava conferma tra quelli che avevano assistito alla scena.
Nel frattempo era stata chiamata un’ambulanza e avvertita la famiglia di Andrew.
Alfred Hayden, messo al corrente dell’accaduto, uscì sul piazzale ammonendo gli studenti ad essere accorti nell’uso delle parole con i poliziotti e con i giornalisti, che di sicuro la stampa si sarebbe interessata alla vicenda, e una pubblicità negativa non avrebbe giovato a nessuno: «Quello che è accaduto è un deprecabile incidente senza intenzione di dolo, e come tale va trattato.»
L’autoambulanza e la polizia erano giunte a sirene spiegate nello stesso momento. Andrew venne caricato sulla prima e Peter Newton sulla seconda, mentre venivano prese le generalità e raccolte le testimonianze di quelli che avevano assistito all’accaduto: tutti concordarono sulla versione dell’incidente.
Immobile, dietro i vetri della finestra del suo ufficio, Alfred Hayden aveva assistito a tutta la scena.

 

 Era pomeriggio inoltrato quando Angie Rose fece ritorno al suo appartamento. Imbruniva, ma le nubi s’erano diradate allontanando la minaccia di pioggia, e avrebbe potuto portare con sé Hamlet. Questo la rasserenò, distogliendola per un momento dal malessere per quanto accaduto accaduto, quel pomeriggio, alla “Alfred Hayden’s Acting Shool”. Il dubbio di aver troppo frettolosamente avvallato come incidente la vigliacca aggressione di Peter Newton ai danni di Andrew Saint Just la tormentava. Era vero che Andrew era stato il primo a menar le mani ma  la reazione insensata di Peter, che lo aveva assalito alle spalle, non giustificava la legittima difesa. Posta in questi termini la faccenda non poteva essere etichettata come “incidente”. Forse avrebbe dovuto rivedere la sua testimonianza. Ne avrebbe parlato con Christine Logan.

Salendo le scale, diretta al suo appartamento, si ricordò della promessa fatta ad Olimpia Collins, ma in quel lungo pomeriggio erano saltati tutti gli orari e aveva appena il tempo di una doccia e di un cambio d’abiti, e poi di nuovo in metro alla volta di Brooklyn, per il suo turno di lavoro al ristorante, già valutando l’ipotesi, se fosse stata troppo stanca per il viaggio di ritorno, di fermarsi a dormire nella stanzetta adiacente alla cucina. In origine un piccolo vano ristrutturato per offrire una stanza ad Apache, e usato poi per le situazioni d’emergenza. Angie Rose aveva pensato più volte di trovarsi un appartamento nelle vicinanze del ristorante, ma gli affitti nella zona erano troppo alti in aggiunta alle spese per la scuola di recitazione, e il suo stipendio di cameriera, nonostante i generosi arrotondamenti di Gina, non sarebbe bastato per tutto. Avrebbe potuto cercarsi un lavoro più vicino al quartiere dove lei ora abitava, ma da nessun’altra parte avrebbe trovato il calore e l’empatia del “Gina Colombo’s Restaurant”. Gina, Marta, Apache e Jean Baptiste erano come una famiglia: si comprendevano e si sostenevano. Questioni gravi, fra loro, non c’erano mai state, almeno da quando lei vi lavorava: era tutto alla luce del giorno. I mugugni non avevano ragione di sostare nelle profondità delle viscere, quando portati in superficie trovavano una voce, uno sfogo e quasi sempre una soluzione.
Comparò il mondo luminoso e caldo di Gina Colombo a quello buio e freddo di Alfred Hayden: due universi asimetrici e incompatibili, distanti fra loro anni luce.
E lei vi sostava nel mezzo.