L’UOMO DELLE FORESTE
Giovanni Basile era figlio di Saro, un oscuro calzolaio che aveva inutilmente tentato, come tanti, la fortuna in terra d’America, prima a New York poi a Detroit. Nel frattempo mise su su famiglia con Elsie, una giovane indiana di etnia Pueblo che morì di setticemia poco dopo aver dato alla luce suo figlio. La mancanza di lavoro, e le difficoltà ad allevare da solo il bambino, indussero Saro a tornare nel borgo natio di Terrasini, nell’entroterra di Palermo. Giovanni fu allevato con riluttanza dai nonni che non gli riconoscevano, per via della madre indigena e non cristiana, l’appartenenza al loro stesso ceppo, e crebbe quasi misconosciuto allo stesso  Saro che, trasferitosi a Catania con la sua  nuova famiglia, lo aveva lasciato alle loro cure. La nonna lo nutrì di un affetto aspro e frettoloso. Era già avanti con gli anni quando Saro le aveva messo tra le braccia quel fantolino dalla pelle di terracotta, i capelli lisci e gli occhi a mandorla, così diverso da tutti gli altri suoi nipoti, riccioluti e con gli occhi tondi. Il nonno, quel piccolo straniero, che portava il suo stesso nome, non lo respinse ma si limitò a trattarlo con la cortesia dovuta all’ospite. Con gli anni, però, le distanze fra loro s’erano accorciate: uniti dalla passione per la pesca e per il silenzio, si riscoprirono consanguinei. Seduti sullo stesso ciottolo, le gambe immerse nell’acqua, erano un tutt’uno, senza bisogno di parlarsi.

«Te vogghiu beni, abbrazzami.» Gli disse il nonno prima di morire.
Era la prima volta che glielo diceva Era anche la prima volta che gli chiedeva qualcosa.
Giovanni si stese nel letto accanto a lui e lo strinse fra le braccia.
Fu quello il loro primo abbraccio. E quella la loro ultima battuta di pesca.
Il vecchio gli aveva lasciato in eredità, oltre la dichiarazione del suo affetto, anche una piccola somma di denaro che Giovanni spese per intraprendere il suo primo viaggio in America, nel Michigan, sulle orme della madre. Ma l’unica traccia che trovò di lei fu una lapide disadorna e dimenticata. Nemmeno una fotografia, o il ricordo di qualcuno che l’avesse conosciuta: di Elsie, il mondo aveva perso la memoria. Ma l’ America lo attraeva coi suoi cieli enormi sotto cui anche il più sconfinato dei paesaggi rimpiccioliva alla dimensione di una cartolina. Sotto quei cieli immensi e deserti si sentiva al sicuro. Decise di rimanere. Iniziò una vita nomade e frastagliata, continuamente interrotta e continuamente ripresa, secondo il suo umore e i suoi bisogni. Non aveva legami fissi e neppure li cercava. Non aveva particolari esigenze personali se non quelle di una presa di tabacco. Si spostava continuamente da uno stato all’altro, libero di scegliere se dormire in una stanza al coperto o all’addiaccio sotto le stelle. Non aveva un progetto esistenziale, viveva di piccoli lavori temporanei e non impegnativi, poiché non era alla stabilità economica che mirava ma alla libertà, che intendeva a largo raggio.
Niente legami. Niente contratti. Nessun vincolo.

In virtù di questo accettò l’incarico di aiutante sul campo di Albert Young, un giovane, intraprendente biologo che s’apprestava a mappare tutte le specie, vecchie e nuove, delle formiche predatrici nella foresta di Semuc Champey in Guatemala, per ottenere finanziamenti per un suo rivoluzionario progetto nell’ambito della genetica.
«Quello che le offro, Giovanni, è un  lavoro faticoso e certosino, in un ambiente caldo-umido, difficile. La paga non è gran ché ma il panorama è mozzafiato.» Lo irretì il biologo, e lui consapevolmente si lasciò irretire. E non se ne pentì mai: Albert Young era stato di parola, perché il paesaggio era quello verde smeraldo di un mondo impenetrabile, nebbioso ed incantato, del quale immediatamente s’innamorò. Ad incarico ultimato, con il compenso ricevuto comprò un cavallo, si lasciò crescere i capelli che legò in una treccia, e iniziò la vita da esploratore delle grandi foreste pluviali del centro America, dal Belize a Panama. Si guadagnava da vivere come guida per chiunque fosse interessato a scoprire i  segreti e gli splendori di quei paesaggi grezzi, ancora selvaggi ed incontaminati.
Albert Young, che quei finanziamenti aveva poi ottenuti, non si dimenticò di lui, e provvide a fargli avere un extra sul compenso pattuito, riconoscendogli pubblicamente in un intervista rilasciata a “La Hora” il quotidiano più diffuso nella capitale Città del Guatemala, un ruolo fondamentale nel successo della sua impresa: per la sua intelligenza pratica, la prodigiosa memoria visiva, lo straordinario senso d’orientamento, l’audacia temperata dal buon senso. Doti che nel loro soggiorno nella foresta di Semuc Champeny li avevano tratti d’impaccio da alcune situazioni rischiose.
Quella pubblicità gli procurò fama e clienti, trasformandolo in un personaggio da film.
Fu così che nacque  “l’uomo delle foreste”.
STORIA DI UN’AMICIZIA
Concetto Scalavino, già affermato nel settore del legname, aveva saputo di Giovanni Basile da un articolo nel “Giornale di Sicilia”, dove il botanico Guglielmo Gaudio raccontava il suo soggiorno nella foresta umida di Sierra de las Minas in Guatemala, esaltando la pregiatissima qualità e la prodigiosa varietà delle specie degli alberi presenti “pini, ebani, cipressi, querce e abeti, alti come torri e solenni come cattedrali” Nell’ultima parte dell’articolo, lo studioso menzionava l’italiano come la straordinaria guida che lo aveva protetto dalle nebulose insidie della foresta, “perché anche le foreste, come tutte le creature viventi, hanno un’anima esterna, fluttuante e luminosa, ed una interna, più fitta e buia”

Espandere, ma anche differenziare la sua azienda nel mercato del legname, era stato per Concetto Scalavino, fin dagli inizi della sua attività imprenditoriale, il traguardo prefissato, non solo per un fattore economico ma anche, e soprattutto, per esaudire la sua passione per l’arte dell’ebanisteria.
Quell’articolo sul “Giornale di Sicilia” era stato per lui illuminante, fortificandolo nei suoi progetti di espansione aziendale. Dalle foreste del centro America avrebbe importato il legname più pregiato per i maestri ebanisti siciliani, e di quelli oltre confine. Sarebbe stata l’eccellenza del suo prodotto a giustificarne i costi  elevati: la differenziazione, il salto di qualità che gli avrebbe permesso, se non il monopolio nel settore, di sicuro il predominio.
S’imbarcò alla volta del Guatemala, nonostante la sua predisposizione al mal di mare e la sua scarsa propensione ai viaggi, con l’intento di convincere “l’uomo delle foreste” a lavorare per lui. Un tentativo andato a vuoto, che gli riuscì  solo quando Giovanni Basile, ammalatosi di febbre gialla, dovette rinunciare al suo lavoro di guida perché l’ambiente delle foreste gli era diventato ostile. Tornato in Sicilia per il periodo della convalescenza, Concetto Scalavino gli rinnovò la sua offerta di arruolamento, e questa volta Giovanni accettò.
«Non voglio un ufficio, non intendo occuparmi di scartoffie. Il mio lavoro lo svolgo all’aria aperta, nei miei tempi e nei miei modi.» Fu la prima richiesta di Giovanni Basile alla firma del contratto. Concetto Scalavino ni si oppose a questa come a nessun’altra delle sue condizioni.
In realtà di un ufficio Giovanni Basile non aveva affatto bisogno visto che il suo compito era quello di visitare le piantagioni di alberi dell’America centrale e selezionare il legname da esportare, mentre delle pratiche e dei contratti  se ne sarebbe occupata la rappresentanza della “Scalavino Timber Exported “a Città del Guatemala.
Un sodalizio, il loro, che s’era trasformato nel corso degli anni in un’amicizia ruvida ed onesta. Un’amicizia alla distanza ma più solida di quelle a stretto contatto, perché necessitava di una fiducia illimitata nel reciproco operato, vista l’impossibilità delle verifiche sul campo e in tempo reale.Al momento dei fatti Giovanni Basile era tornato  in Sicilia per comunicare a Concetto Scalavino la sua intenzione di lasciare il lavoro ed imbarcarsi per l’Argentina dove avrebbe messo su un allevamento di cavalli e, se non era troppo tardi, anche famiglia. Gli avrebbe dato il tempo, però, di trovare un sostituto. Lui stesso avrebbe potuto proporgli dei nomi e provvedere, prima della partenza, a tornare in Guatemala ed espletare in sua vece tutte le formalità.
La vita nomade lo aveva deteriorato. Era stanco. La solitudine l’opprimeva e il silenzio lo immalinconiva. La sensazione di fluttuare nel vuoto lo induceva ad ancorarsi al suolo. Consapevole della sua impotenza a gestire quel suo malessere, iniziò a soffrire d’insonnia. Passava la notte a rigirarsi nel letto in preda ad un’oscura angoscia che neppure la presa di tabacco, fortificata dall’hashish, rendeva sopportabile
…ma lo stato critico in cui versava l’amico lo indusse a tacere sui suoi propositi e a rimandare la partenza.continua…