Il nome del mio popolo è onomatopeico.
Pataxò. Come il rumore delle onde che si infrange sulla riva. Pataxò, perché noi eravamo sempre lì, dove l’onda andava a morire, quando ancora vivevamo di pesca nella nostra terra ancestrale. Prima che la pesca ci fosse vietata, prima che ci confinassero nella riserva naturale, costretti a cedere le nostre terre agli allevatori, e poi ai coltivatori di caffé ed eucalipto.
La terra è sempre stata il nostro corpo. I fiumi sono le nostre vene. Privandoci della terra, ci hanno privati del nostro essere. Bruciando i nostri alberi, hanno gettato lava nei nostri occhi. E il governo ha tollerato per decenni ogni massacro a nostre spese. E continua, impunemente. Un’agonia, continua e inesorabile, come la lama affilata di un sadico, che si insinua nelle viscere alla ricerca dei punti più dolorosi con cui incidere la sua lenta morte.

Quelli di noi che resistono, che restano, lo fanno perché non accettano di diventare zombie infelici nel caos urbano di Bahia. E così continuiamo a morire, per difendere la foresta.

Io sono vecchia. Sono invecchiata in fretta, per il dolore. Ho deciso di restare, e resistere, tanto comunque non me lo potrò mai levare dalle orecchie il grido disperato degli animali che bruciano vivi.
O l’odore del fuoco che quella notte proveniva dalla nostra capanna.
Lo sento strisciare da così tanto tempo il soffio della vita che se ne va: si insinua tra le foglie e passo passo discende il fusto fino alla fine, fino a quando non raggiunge le radici.
Ed ora quel soffio di morte è così vicino! È sotto la pianta dei miei piedi nudi.

Sono nata per essere vita nella vita della foresta.
E la mia ormai è non vita.
Colpi di fucile si sono portati via mio figlio, e con lui molti altri dei nostri figli e nipoti. E le donne, e i bambini… e la riserva di ossigeno del mondo intero.