Il mio amico Andrea mi aveva invitato nel suo studio:
«Ho una sorpresa per te», mi annunciò al telefono.
Era un pittore come me, famoso per i suoi dipinti dai colori lugubri e cupi che io avevo sempre definito, con estrema sincerità:
«Troppo spogli per i miei gusti, i tuoi quadri danno la sensazione che nella tua anima regni la desolazione!».
A prescindere dai miei giudizi personali, i suoi dipinti riscuotevano un buon successo di critica soprattutto da parte degli appassionati di ecologia.
Eravamo amici da molti anni, ci confrontavamo spesso e lui rideva dei miei commenti, alzava le spalle e, per fare pace, qualche volta m’invitava a cena in una misera pizzeria, accanto al suo studio, che definiva “alla buona”.
La pizza era ottima ed io accettavo l’invito quando la solitudine dovuta al mio lavoro richiedeva una pausa, avevo bisogno di un tuffo in mezzo agli altri o mi prendeva la voglia improvvisa di socializzare.
Eravamo due artisti che esprimevamo l’arte in maniera opposta: lui trasmetteva un messaggio di ribellione rivolto all’autodistruzione dell’Umanità, invece io, che amavo guardare la vita con speranza e ottimismo, attraverso la bellezza della natura, cercavo di lasciare allo spettatore un messaggio di serenità e di gioia per il solo fatto di esistere.
I suoi colori cupi e freddi erano in netto in contrasto con i miei colori caldi e luminosi.
Forse, andavamo d’accordo per questo: i due opposti si attraggono e noi amavamo entrambi l’arte con convinzione e passione senza porci limiti o confini.
Era l’uomo di cui ti saresti potuta innamorare a prima vista, per odiarlo subito dopo per le sue prese di posizione esagerate contro l’inquinamento e le rivendicazioni sociali portando l’altro all’esasperazione.
Non conosceva le mezze misure e le nostre discussioni duravano ore senza portare a nulla: ognuno di noi, rimaneva fermo nelle proprie convinzioni.
Era fin troppo sincero e di un’imprevedibilità esagerata.
Da alcuni mesi non avevo notizie, a significare che era nel pieno di una fase creativa e lavorava giorno e notte.
Non fui sorpresa della sua telefonata.
Era fatto così: non mi considerava per mesi per ricomparire all’improvviso come se niente fosse.
Era quasi sera quando bussai alla porta del suo studio posto all’ultimo piano di un vecchio palazzo di periferia.
Lo sentii urlare da dentro:
«Arianna, vieni, la porta è aperta».
Entrai e osservai il suo abituale disordine reso affascinante da un senso di mistero che riusciva a creare ammassando oggetti inutili insieme a tele e materiali artistici e tubetti di colori che esprimevano la natura della sua arte: bianco, nero, blu di Prussia, Terra di Siena naturale, Blu Oltremare …
Stava preparando una personale e i suoi dipinti riempivano lo studio.
Li osservai e rimasi colpita da qualcosa di nuovo che mi piacque.
La mia attenzione fu catturata da un dipinto appoggiato sul cavalletto coperto da un telo bianco.
Lo indicai curiosa:
«Che cos’è?»
«L’ultima opera?»
Mi guardò sornione per un lungo momento:
«Un regalo per te, voglio la tua opinione.».
Scoprì la tela e mi lasciò senza parole.
Dopo qualche minuto m’incalzò:
«Che cosa ne pensi?», mi chiese pulendosi le mani sporche di colore con uno straccio altrettanto sporco.
La tela rappresentava un paesaggio desolato e grigio (tipico del suo dipingere), al centro del quale campeggiava una grande tavolozza ricca di colori caldi e accesi e, il cielo, denso di nubi, lasciava intravedere un pezzo di azzurro illuminato dal sole.
Deglutii, poi dissi:
«Se devo dire che cosa mi trasmette e commentare, ti dico questo», affermai io.
«Immagino Dio che osserva il pianeta dopo il Diluvio Universale come uno spettatore critico e sconcertato, nell’atto di consegnare a Noè un’enorme tavolozza con i più splendidi colori che si possano immaginare e che, dopo aver fermato la pioggia, allontanato le nuvole, fatto apparire il sole, gli dia il compito di ridisegnare e ridipingere la terra per riportarla al massimo dello splendore. Una specie di ricreazione dell’Umanità».
«Intitolerei il dipinto “Un soffio di natura”».
Rimanemmo in silenzio a osservare, mentre lui annuiva piano.
«Grazie del regalo, Andrea», mormorai, «uno dei dipinti più belli della tua collezione, uno di quelli che mi trasmette una grande emozione».
«Sei finalmente riuscito, in mezzo al tuo cinismo, a lanciare un messaggio di speranza».
Mi guardò e, se non fosse stato che riprese a scherzare sul fatto che tra noi due il migliore in assoluto fosse lui, mi parve di intravedere nei suoi occhi una lacrima di commozione mischiata all’orgoglio di chi è consapevole di aver creato un capolavoro.
Quando ci penso oggi, mi convinco che forse sbagliavo.
Ero solo io che mettevo in moto, come solito, una fervida immaginazione.
Lui era come sempre: burlone, imprevedibile, inafferrabile, dissacrante, sovversivo e molto testardo.