Ho sempre ammesso un forte pregiudizio nei confronti dei biopic, film che, con pochissime eccezioni, trovo scontati, fasulli e ricattatori. (Ne scrivevo già qui). Per fortuna, Elvis di Baz Luhrmann sfugge ai due rischi più grandi che correva: quello di essere l’ennesimo squallido resoconto scandalistico e quello di essere una grandiosa caricatura scenografica, la versione Moulin Rouge della vita di Elvis Presley.

Non c’era bisogno di esagerare e Baz Luhrmann lo sa benissimo: la vera vita di Elvis è già, finale tragico incluso, la versione Moulin Rouge della vita di una persona normale. Basta semplicemente rispettarla e raccontarla e questo fa Elvis, forse dilungandosi qua e là, ma regalando anche momenti di eccezionale emozione. Non si sfugge a qualche luogo comune (le persone negative sono tutte lombrosianamente brutte o incarognite, incluso il colonnello Parker di Tom Hanks, che sembra quasi uscito da un film di Batman), ma sono peccati veniali rispetto a una messa in scena impeccabile, che prova a rendere omaggio al Re senza gridare che è nudo e che gli unici momenti di eccesso se li concede per provare – come nella prima esibizione di Baby, Let’s Play House, a catturare in pochi secondi la portata rivoluzionaria di Elvis e del Rock’n’Roll. Particolarmente centrata è inoltre l’idea di tornare a più riprese alla musica che ha formato Elvis, mostrandone i trascorsi con gli altri musicisti di colore, da B.B. King a Little Richard a Rosetta Tharpe.

Splendida la prova di Austin Butler, attore semisconosciuto, nei panni di Elvis Presley. Non è sempre scontato, soprattutto con personaggi di questa portata: non basta il mestiere, non bastano l’imitazione o lo studio. Elvis trasudava carisma qualunque cosa facesse e la prova di Austin Butler – certamente aiutato da un grande lavoro di regia – ha una credibilità non comune.

La parabola della carriera di Elvis corre parallela a quella della sua vita e a quella degli Stati Uniti, dal dopoguerra alla metà degli anni settanta. La metafora è talmente evidente che non c’è bisogno di andare molto oltre la cronaca. Qualche peccato di omissione nel racconto dell’ascesa di Elvis (ma di anche qualche episodio interessante tipo l’incontro con Nixon – già oggetto di altri film) pareggia il fatto che almeno non si sia sentita la necessità di travisare i fatti o aggiungerne troppi a scopo drammatico.

Non serviva altro, e forse il merito maggiore di questo film è ricordarci che non dobbiamo necessariamente decostruire i miti, smontarli per vedere cosa c’è dentro, dissezionarli con film, libri e documentari per scoprire dove stava il trucco. Dovrebbe bastare celebrarli ed essere grati.

Elvis è Elvis: lo era nelle fiere di paese mentre cantava That’s all right mama non ancora ventenne e bello come un dio, lo era nei ridicoli musicarelli di Hollywood e lo era decadente a Las Vegas, specchio del suo paese ormai risvegliato dal sogno americano a colpi di omicidi razziali e guerre insensate.

La musica degli anni settanta non era la musica di Elvis ma il film di Luhrmann, se una cosa fa davvero bene, è quella di ricordarci che un artista non necessariamente deve aprire sempre una strada nuova per essere tale. Elvis ha fatto qualcosa che nessuno aveva fatto prima e nessuno farà più, però a un certo punto ha sentito che la musica che faceva bene a lui era quella che sentiva dentro, non quella che si sentiva fuori, e ha preso la sua strada.

Sta a voi decidere se l’Elvis grasso e affaticato del finale che canta un’anacronistica ma struggente Unchained Melody a Las Vegas vi commuove per pietà o perché dimostra che essere fuori dal tempo, a volte, può voler dire essere diventati immortali.