EGO TE ABSOLVO…

 

di Agostino Franchi

 

 

«Ego te absolvo, in nomine…»

 

Padre Alfonso stava seduto su quel letto da quattro soldi, e continuava a ripetere la sua litania da ore.

Aveva pregato per tutto quel tempo, ed ora si stava assolvendo da ogni peccato.

Si batteva il petto, come a voler percuotere violentemente quel corpo, reo di aver ceduto alla carne, alle lusinghe del demonio che lo aveva messo alla prova.

Le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi, gli stessi che gli avevano permesso di godere dalle immagini che proiettavano al cervello.

Pensieri nefasti.

Dio non poteva permetterlo.

Lo aveva chiamato a sé per far parte di quella schiera di “All Blacks” che doveva diffondere la sua parola, moderni custodi di una fede antica, fatta di peccati ed ignari peccatori, da redimere e convertire.

Lo stesso peccato che lui aveva ripetutamente commesso, perpetrato, ignorando le regole, lui che era soltanto un modesto convertitore di anime, una nullità, che i suoi vizi avevano eletto a prima donna, in uno spettacolo empio ed immorale.

 

«Ego te absolvo in nomine…»

 

Era rinchiuso nella sua stanza senza rendersi conto di quanto tempo fosse passato, senza cibo, né acqua. Quanto potesse resistere ancora non lo poteva sapere, ma aveva scelto di chiudersi al mondo. I suoi parrocchiani lo avevano già condannato, isolato, e sostavano fuori la chiesa gridando e inveendo contro quell’occupante blasfemo di un luogo sacro.

Persino la perpetua lo aveva abbandonato.

Lo accudiva da ben dieci anni, sin da quando arrivò in quel piccolo paesino di provincia, e lo avrebbe fatto ancora per molto tempo, ma non voleva più farlo per chi aveva infangato in quel modo l’abito che indossava.

Non lo avrebbe mai lavato.

Era una donna di alta moralità, come tutti nel paese, seguaci fondamentalisti di una religione che dettava i tempi della vita quotidiana. Vedova, non si era mai voluta sposare di nuovo, e quindi si era dedicata anima e corpo a quel prete appena arrivato, con dedizione unica, quasi che fosse il marito che non aveva voluto ancora.

Ma non era certo lui che serviva, era Dio. Un Dio che gli aveva portato via, ancora giovane, l’uomo con cui avrebbe condiviso la sua vita, in modo violento, quasi a volerglielo strappare con forza, e riprendersi ciò che le aveva concesso perché indegna. La sua giovinezza l’aveva portata a condividere le due parti del letto con diversi uomini, giovani e vecchi, alcuni sposati, e si considerava una portatrice sana di felicità, che solo attraverso il sesso sapeva esercitare.

Una missione, la sua, che sentiva di dover portare avanti nonostante i giudizi, i pregiudizi di tutti, che la tenevano a distanza, un esilio forzato che lei considerava ingiusto.

La sua non era una malattia, un’ossessione, ognuno è quello che è, e lei sentiva la vita scorrerle dentro soltanto nel contatto col sesso opposto, i loro fremiti, i sensi sconvolti, l’apologia della scopata come dottrina religiosa.

Ma anche la fede, a volte, può vacillare a causa di dubbi umani.

La maturità, la sazietà, la meccanicità delle pratiche che svolgeva, tutto si riduceva al momento, all’attimo, un lavoro che si stava rivelando noioso, senza altro scopo oltre quello di godere e basta.

Dio le concesse un’altra occasione.

Ma se la riprese con gli interessi.

Capì che quello che le era accaduto era un segno, e doveva essere l’inizio della sua redenzione.

“Bocca di Rosa” smise di esercitare.

Padre Alfonso sapeva benissimo che quella donna, ancora giovane, lo considerava il passaggio obbligato verso la conquista di quel posto alla destra del Dio-Padre.

Un Dio-Padre che alla sua sinistra, chissà perché, non voleva nessuno.

La sua tonaca lo spingeva a non considerarsi un uomo normale, era un prete, un essere votato alla rinuncia. Ma a volte la guardava in modo diverso dal solito.

Conosceva il suo passato, e la rispettava per la scelta che aveva deciso di intraprendere. Indossava sempre abiti lunghi, gonne sotto il ginocchio, per non dare adito a chiacchiere, si faceva presto a fraintendere, e lei non voleva assolutamente essere oggetto del passaparola del paese.

Soprattutto adesso che la sua reputazione si stava consolidando.

Spesso però, il prete, posava gli occhi su quelle evidenti rotondità che, nonostante la pesante copertura, balzavano ai suoi occhi esperti, immagini che fin da ragazzo, insieme ai suoi compagni, rubavano alle finestre, spiando quei corpi femminili che lo avrebbero segnato per sempre.

Le stesse che vedeva nella sua perpetua, nascoste, e questo lo turbava a tal punto da sentire quel movimento naturale nelle parti basse, lo sentiva crescere, diventare pulsante, una conseguenza dell’innaturale astinenza che quell’uomo si era imposto, e che l’abito che indossava non poteva nascondere.

Lei se ne accorgeva, e sorrideva di nascosto. Donna di alta moralità, come tutti nel paese. Ognuno coi suoi scheletri ben nascosti, ma che non potevano restare nell’ombra troppo a lungo.

 

«Padre nostro che sei nei cieli…»

 

L’omelia che, Padre Alfonso, aveva recitato quella domenica era improntata soprattutto sul libero arbitrio, sulle scelte che ognuno di noi decide di intraprendere al di fuori della volontà di Dio.

«Le conseguenze dei nostri atti, sono soltanto nostre, e dobbiamo accettarle, nel bene e nel male. Dio ci ha concesso la possibilità di scegliere, ma se sbagliamo la colpa è solo nostra. Perciò, prima di decidere, valutiamo sempre le possibili conseguenze.»

Era stato abbastanza chiaro. Ma non fece come Ulisse. Le sirene lo colsero impreparato.

Finita la messa, si spogliò nella sacrestia, e si diresse verso la cucina dove lo aspettava il pranzo che la perpetua aveva preparato.

Aveva appetito.

Ma ben presto si accorse che non era l’unico appetito che avrebbe saziato.

La perpetua era intenta, di spalle, a cucinare. Aveva una gonna sopra il ginocchio.

Una stranezza che il prete considerò alquanto bizzarra. Ora riusciva a vedere quelle gambe che nelle sue immaginazioni aveva modellato.

Tornite e carnose.

Un brivido lo percosse ovunque, ma soprattutto in un punto ben preciso.

Lei si voltò. Aveva un sorriso strano. Si avvicinò con in mano il piatto di portata.

«Si sieda, Padre.»

Una voce lussuriosa.

La sua scollatura metteva in risalto seni così prosperosi da risultare al di fuori della legge. Il prete si sedette senza riuscire a togliere lo sguardo da quella figura, una Maria Maddalena apocrifa che stava seducendo il suo Cristo.

L’astinenza forzata aveva reso quella donna immune da ogni desiderio carnale.

Un voto di castità che, però, doveva fare i conti col suo passato e i bisogni di una donna ancora nel pieno delle sue stimolazioni sessuali.

Non vi era niente di sacro in quel prete, era un uomo come tutti gli altri.

Padre Alfonso non riusciva più a connettersi col mondo esterno.

La ragione avrebbe dovuto risvegliarlo da quel torpore ebbro di sensualità incontrollata, e fermare quella, che ormai, considerava una sconosciuta, vittima di un demoniaco sortilegio, che lo aveva eletto a soddisfacente oggetto delle sue voglie represse.

«Dio, perché mi fai questo?», pensò.

Ancora la sua voce lussuriosa.

«Io ho visto, Padre, me ne sono accorta».

E lo vedeva anche adesso.

Non sembrava più la stessa donna. Un essere devoto, ammantato di probabile santità, scevro da ogni possibile desiderio peccaminoso, moglie fedele di un uomo che non l’avrebbe mai più soddisfatta, umile serva di un soldato del Signore, quel Dio che l’aveva sedotta con le sue promesse, stringendo un patto pieno di rinunce e pensieri repressi, che ora stava infrangendo.

Con lussuriosa consapevolezza.

Quell’uomo la desiderava, e lei voleva essere ciò che per suo marito non era mai stata. Tornava alla sua giovinezza, ebbra di vogliose consuetudini di un passato, che stava emergendo dalla sabbia del tempo con tutta la sua potenza.

Essere ancora un orgasmo dei sensi.

 

“Legati, Ulisse, legati al palo e copriti gli occhi, gli occhi e le orecchie!”

 

Troppo tardi.

Lei posò il piatto sul tavolo, e si inginocchiò davanti a lui. Sollevò la tonaca.

Il sesso del prete era allo spasimo, e lei lo prese in bocca.

I suoi movimenti erano dolci e regolari: assaporava lentamente.

Con suo marito non era mai stato possibile. Lui era diretto allo scopo e basta.

Una bambola di carne. Ora, lei, aveva il potere di decidere se e quando portare quell’uomo alla fine.

 

“La bocca sollevò dal fiero pasto…”

 

Si alzò, lasciando il prete col suo membro eretto che pulsava.

Sollevò la gonna, lasciando intravedere la mancanza dell’indumento preposto, e si sedette sopra di lui, facendo entrare nella sua vagina, ormai pronta, quello che desiderava. Dapprima piano, poi sempre più freneticamente.

Se qualcuno fosse entrato in quel momento, sarebbe stata la fine per entrambi.

Ma Dio li vedeva, e avrebbe colto il momento adatto per punirli.

Soprattutto lui, il prete: aveva infranto le regole.

Vennero entrambi, in sincronia, esplodendo come una bottiglia di bibita gassata sbattuta ripetutamente.

Quel giorno nella cucina, le macchie di liquido denso si amalgamarono con le loro anime, abbandonandoli al loro libero arbitrio.

Divinità soggiogate da desideri umani, che si sarebbero sedute per sempre alla sinistra del Padre.

Si abbandonarono allo sfinimento, l’uno nelle braccia dell’altro, consapevoli di essere stati coinvolti in una situazione che non avrebbe potuto avere seguito, l’inizio e la fine di un gioco, dove Eros e Thanatos tessevano le trame, conducendoli verso le porte dell’Ade.

Nei giorni seguenti, la perpetua, non si fece vedere. Padre Alfonso non sapeva darsi pace. La sua prima volta non l’avrebbe mai immaginata così. La sua prima volta non l’avrebbe mai immaginata in abito talare. La sua prima volta e doveva pentirsi di averlo fatto.

Per carità, il manuale dell’autoerotismo lo conosceva a perfezione.

Ma non aveva mai provato l’ebrezza del contatto fisico con l’altra parte del cielo.

Se non ci fosse stata lei a condurre la cavalcata, letteralmente, di sicuro si sarebbe trovato in una situazione alquanto imbarazzante. E per quanto potesse sembrare strano, fu proprio il motivo perché scelse di farsi prete.

Da bambini, la scoperta del proprio sesso è una pratica naturale. Si scopre che toccarsi è piacevole, e provoca un cambiamento nelle dimensioni del pene.

È buffo.

Non si ha ancora un vero e proprio appagamento orgasmico, ma il piacere provoca impulsi al cervello, memorie evocative che rimarranno presenti e indelebili, e Alfonso era sempre stato un bambino curioso.

Si toccava spesso, per vederne le conseguenze, ed ogni volta si compiaceva del fatto che quel suo continuo andirivieni con la mano, provocasse sempre l’effetto sperato. La sua era una curiosità che non sapeva reprimere, e qualche volta le punizioni paterne erano molto violente.

Logico, se ti presenti col cazzo in mano in salotto, mentre i tuoi stanno chiacchierando piacevolmente con persone che non conosci, gridando: «Guarda mamma, guarda quanto è grosso!»

Avere otto anni ti può salvare dal loro giudizio, e tutto si sgonfia in una risata liberatoria. Ma quello non ti salverà dalle ire di tuo padre, che, appena rimasti soli, ti gonfia come una zampogna.

Suo padre non poteva capire.

L’educazione ricevuta condiziona tutto lo stile di vita di una persona.

Suo padre aveva ricevuto un’educazione classica, fondata sulla repressione e la pudicizia, sul rispetto obbligato per il padre-padrone che dominava nella casa, ed è quindi normale che quella continua pratica del figlio lo facesse incazzare come una bestia.

Freud capì l’importanza della conoscenza del proprio sesso.

Suo padre no.

Ma era soltanto una copertura.

Scoprire un padre che si masturba, può essere devastante per un bambino.

Per Alfonso fu una liberazione.

Quel giorno era sceso un attimo nel seminterrato a cercare un martello e dei chiodi. Con i suoi amici aveva deciso di costruire una cuccia per il cane.

L’inverno sarebbe stato rigido, e quella povera bestia non aveva neanche un luogo dove rintanarsi. L’aveva chiesto mille volte a suo padre, ma ogni volta riceveva un “NO!” secco e deciso.

Picchiare era il suo spasso preferito, ed anche il cane, spesso, era stato oggetto delle sue, chiamiamole così, “attenzioni”, senza un motivo preciso, solo per il gusto di fare male. Quel povero animale era arrivato alla vecchiaia senza mai aver potuto godere di un accoppiamento, pieno di lividi dappertutto, e ormai cieco.

La curiosità di Alfonso l’avrebbe spinto oltre ogni limite, se il senso della ragione non si fosse impossessato, fortunatamente, dei suoi pensieri.

Masturbare il cane per fargli provare almeno una volta quel piacere sconosciuto, non sarebbe stata una grande idea. La compassione lo condusse così a distogliere quelle perversioni dalla sua mente, e a procurargli un rifugio sicuro dal freddo dell’inverno.

Mentre scendeva le scale, sentì dei gemiti. Si fermò a metà della rampa.

Silenzio.

Continuò nella discesa, lentamente. Ancora gemiti.

Sentiva la paura impossessarsi di lui.

Cautamente scese un gradino alla volta.

Fotogramma a fotogramma, l’immagine, man mano che scendeva, si faceva più nitida, e quello che vide lo lasciò per un attimo senza parole.

Suo padre lo vide, e bloccò di botto il movimento della mano, ma ormai era arrivato oltre, e il getto fu copioso.

Si guardavano senza dire nulla.

Alfonso immobile sulla rampa di scale, e suo padre col cazzo in mano.

Poi, ricomponendosi frettolosamente, il padre disse:

«Che ci fai qui?»

«Cercavo il martello e dei chiodi…»

Ma quel dialogo nascondeva altre parole non dette.

«Mi hai scoperto! Adesso cosa penserai di me?»

«Tu che mi hai sempre punito per questo!»

«Non dovevi vedere!»

«E invece sì, perché adesso so che non facevo niente di male!»

Infine, la minaccia.

«Se provi a dirlo a tua madre, ti uccido!»

«Mi fai schifo!»

Invece, tutto si risolse nel nulla.

«Il martello è lì e i chiodi sono nel cassetto»

«Ok.»

Alfonso prese il necessario e risalì, senza immaginare che quella salita si sarebbe rivelata, tempo dopo, in realtà, una discesa negli inferi.

Crescendo, le sue curiosità si diressero verso altri lidi.

Ormai la scoperta del proprio sesso era superata, anzi si toccava sempre di meno, e l’immagine subliminale di suo padre lo accompagnava sempre nell’inconscio.

Ma non per questo evitava il contatto. Perlomeno non con quello degli altri.

Il piacere di sentirsi toccare da una mano diversa dalla propria è una sensazione particolare. Si è completamente in balia degli eventi senza esserne l’artefice, costretto a subire piacevolmente il contatto epidermico con arrendevolezza, al fine di produrre un godimento che non si ha la forza di reprimere, se non lo interrompe la mano stessa che lo sta producendo, e l’eiaculazione, a quell’età, inizia il suo corso.

Di contro, prendere in mano un sesso che non è il proprio è strano.

È un contrasto di sensazioni, un bastone di carne che pulsa, come il proprio ma diverso, se ne avverte la corposità, l’umidità della pelle, e il potere di infliggere colpi su colpi è qualcosa che scompone le cellule, per ricomporle alla fuoriuscita del liquido seminale.

Alfonso e i suoi amici si toccavano spesso.

Soprattutto dopo le scorribande davanti alle finestre, dove, se andava bene, potevano scorgere piccoli particolari di nudità femminili appena accennati.

Tanto bastava per sentire l’eccitazione prendere possesso dei loro giovani corpi.

Quello che all’inizio era cominciato come un gioco, per Alfonso, man mano che il tempo passava, stava diventando un collante che avrebbe cementato per sempre la loro amicizia. E quelle nudità non erano più, principalmente per lui, il leitmotiv delle loro pratiche.

Ma la pubertà è l’inizio del cambiamento, ed uno ad uno, i suoi amici, si allontanarono.

La natura prendeva il sopravvento.

La carica sessuale, in questi periodi della vita, è al massimo, e gli odori sono talmente forti che gli animali sono talmente attratti l’uno dall’altra da non poterlo ignorare, e l’amore è la chiave per sciogliere i rebus.

Alfonso rimase solo.

Stranamente, lui, non avvertiva alcun richiamo della foresta, nessun odore che lo potesse dirigere alla conoscenza dell’altro sesso, nessun turbamento amoroso.

La solitudine lo condusse verso alterazioni psichiche, sentiva la mancanza dei suoi amici, soprattutto dei loro membri, e la notte ne sognava di enormi che lo bastonavano ripetutamente fino allo sfinimento, e gigantesche vagine che lo inghiottivano.

Nelle sue condizioni non aveva altra scelta.

Rinunciare per non soffrire.

Prese una decisione drastica, forse quella più logica per lui, dettata da una presa di posizione prosaica, non certo ecclesiale, ma non aveva altro modo di uscire da un circolo vizioso che lo stava distruggendo.

Farsi prete.

Quando ne informò i suoi, la reazione di sua madre lo colpì. Si chiuse in un silenzio tombale per giorni, continuando a compiere le sue attività domestiche completamente assente. Aveva sognato per il suo bambino un futuro diverso, lontano dalla noiosa quotidianità della vita di quella famiglia, un futuro fatto di scintille e polvere di stelle, celebrità e glamour, e a ogni stella cadente riponeva sogni impossibili per suo figlio, desideri onirici che lei non aveva mai potuto realizzare.

Un prete non è niente.

Nessuno.

La delusione era talmente evidente, tracimava dagli argini del fiume, inondava le campagne, sommergeva l’amore materno fino a farlo affondare nelle acque.

L’indifferenza fece il resto, rendendo ogni sentimento tabula rasa.

Alfonso amava sua madre, la considerava l’estrema ratio di ogni suo problema irrisolto, ma non le aveva mai minimamente accennato delle sue patologie, dei suoi processi morbosi, l’avrebbe costretta a compiere un salto troppo grande persino per lei, e forse sarebbe rimasta al di qua dell’ostacolo a guardare suo figlio andarsene verso un futuro promiscuo, senza neanche il coraggio di lottare per impedirlo.

Ed ora stava compiendo lo stesso sbaglio.

Lo lasciava andare via, rimanendo immobile al di qua della staccionata.

La colpa non risiedeva nei desideri di una madre, ma nel figlio che non aveva fatto nulla per realizzarli. Questo era l’unico pensiero elaborato, ormai, nella sua mente inappetente.

E suo padre?

Continuava a masturbarsi nel seminterrato, a picchiare il cane, e a bestemmiare contro quel Dio che il figlio aveva deciso di servire. Il resto della sua vita era soltanto un cerchio perpetuo, una ruota per criceti che gira senza sosta, con lui dentro che non riesce a fermarsi, a definire una sosta, un punto di fermata, per pensare, o al limite per pisciare.

Suo padre continuava a girare nella ruota, mentre il mondo ruotava al contrario.

Nessuno di loro due lo accompagnò alla stazione.

 

Gli anni del noviziato furono forse i più belli che Alfonso avesse mai vissuto.

Oltre quelli, si intende, quando si masturbava con gli amici.

Lo studio della teologia non lo interessava molto, anche se, quando si inizia un lavoro, bisogna almeno sapere di cosa ci stiamo occupando, e il minimo sindacale bastava. Per il resto si improvvisa.

Il rapporto con gli altri novizi era ciò che lo stimolava di più.

POVERTA’, CASTITA’, OBBEDIENZA. I dogmi da seguire erano chiari, e nessuno nell’istituto avrebbe mai dovuto ignorarli.

 

CASTITA’: l’astensione a ogni attività sessuale, o anche da manifestazioni o pensieri che vi abbiano in qualche modo attinenza.

 

Quella parola aveva un suono distorto nella mente di Alfonso.

I pensieri non si possono reprimere, non si manifestano apertamente, non si vedono, e in qualche modo i suoi tornavano ripetutamente a quei giorni, quando il sole o la pioggia picchiavano forte sui loro membri scoperti.

A volte spiava sotto le docce, di nascosto, quei corpi glabri dove penzolavano escrescenze appena accennate, immaginando di poterle rendere vigorose al contatto. La sua non era una vera omosessualità, non era il sesso maschile che lo attraeva così prepotentemente, ma era l’unico che avesse mai potuto toccare, quello femminile gli era stato precluso, quindi era l’unico parametro di riferimento che avesse. Stava diventando ossessivo, e la presenza di altri corpi giovani non lo aiutavano certo a scacciare dalla sua mente quelli che l’azienda, per cui aveva deciso di impegnarsi, considerava atti impuri.

Era il sesto comandamento, l’aveva imparato e, se voleva continuare ad esercitare il suo mestiere, doveva assolutamente seguirlo.

Represse gli impulsi.

All’inizio aveva fatto quella scelta considerandola una scappatoia, un ripiego, ma adesso doveva in qualche modo darle una motivazione valida. Doveva farlo almeno per sua madre, per non deluderla ancora.

 

La perpetua tornò.

Padre Alfonso ne fu felice, ma nessuno dei due fece parola di ciò che era accaduto. La donna si ripresentò, al suo cospetto, con gonne lunghe, cercando di riprendere il suo percorso verso la santità. Dio l’aveva costretta a quell’empietà, con la consapevolezza che lui ha il diritto di vita o di morte su ognuno, rendendola una vittima sacrificale per il disegno che aveva scelto per il prete.

E adesso doveva iniziare un nuovo percorso, passando per un purgatorio pieno di ostacoli.

Il prete non poteva immaginare ciò che quella donna aveva scatenato, sbloccato nella sua mente, rigenerando ricordi sommersi da anni di condizionamenti teologici, ossessioni riemerse da montagne di dogmi e tavole della legge.

Maria Maddalena si era mostrata, conosceva il mestiere, e Cristo non aveva avuto la forza di ribellarsi.

Il Golgota lo stava aspettando, e avrebbe portato lui stesso la croce sulla strada cosparsa di chiodi, tra ali di folla furente, che lo aveva condannato al calvario.

 

Era scappato, rifugiandosi nella chiesa. Lo avevano inseguito fino al portone, poi si erano fermati. Quello che doveva essere un gioco, per loro si era trasformato in una beffa violenta. Lo ridicolizzavano continuamente, irridendolo per il suo carattere tranquillo, lontano anni luce dall’indole para-criminale che avvolgeva quel gruppo di piccoli amici, rendendolo una vittima perfetta per i loro soprusi adolescenziali. Varcata quella porta, si sentiva al sicuro. Avrebbe dovuto esserlo, nella casa del Signore.

Avrebbe.

Padre Alfonso udì il portone richiudersi e uscì dalla sacrestia.

Lo vide.

Quel bambino respirava a fatica, voltando continuamente lo sguardo in direzione dell’uscita.

«Che succede?», gli chiese.

La chiesa era vuota, e la sua voce esplose come un rombo di tuono, tanto da far sobbalzare il bambino. Si voltò verso quella figura, emersa da chissà quale nascondiglio, imponente, ammantata di luce, pronta a difendere a spada tratta la sua incolumità.

«Vogliono farmi del male», rispose la piccola vittima.

«Chi vuole farti del male?» chiese il prete.

«Loro!», rispose indicando il portone.

Padre Alfonso si diresse verso la soglia, cercando di vedere il motivo della paura di quel piccolo uomo.

Nessuno in strada.

«Qui non c’è nessuno», disse.

Il bambino avanzò cautamente verso di lui, si affacciò, e si rassicurò del pericolo passato.

«Sono andati via».

«Meglio così, no?»

«Lo faranno ancora», sentenziò il bambino.

«Non preoccuparti. Se dovesse accadere, tu vieni subito da me. Ci penserò io a proteggerti. Sono un soldato, sai? Un soldato del Signore».

Il piccolo sorrise.

«Ma sei tutto bagnato, che ti è accaduto?», chiese Padre Alfonso.

«Mi hanno fatto la pipì addosso», rispose il bambino con un senso di timorosa vergogna.

«Sant’Iddio! Non puoi andare in giro in queste condizioni. Ti accompagno a casa, ma prima devo darti una pulita. Meglio che i tuoi genitori non sappiano cosa ti è successo, non credi?», gli disse il prete con aria complice.

Il bambino annuì.

«Come ti chiami?»

«Riccardo».

«Bene, Riccardo, ora vieni con me. La mia perpetua al momento è assente, quindi vediamo se riesco a darti una ripulita come Dio comanda».

Si avviarono insieme, mano nella mano.

Il padre e il figlio.

Entrarono nella stanza da bagno, e Padre Alfonso aprì il rubinetto della vasca.

«Un bel bagno toglierà l’odore».

Riccardo non aveva mai molto amato fare il bagno.

Fin da piccolo, il contatto con l’acqua lo terrorizzava, facendolo disperare.

Sua madre cercava in tutti i modi di calmarlo, il suo tono di voce era stato sempre rassicurante, ma non poteva competere con la forza brutale di quel liquido, che copriva gran parte del suo corpo, e lo faceva sentire instabile e precario.

La tortuosità della psiche umana è incomprensibile.

Ci formiamo embrioni in un liquido e poi ne abbiamo paura.

Ma quella volta avrebbe dovuto astenersi, entrarci dentro e arrendersi.

«Togliti questi vestiti puzzolenti. Gli daremo una lavata. Con questo vento caldo si asciugheranno in fretta, vedrai», disse il prete.

Riccardo si spogliò, mostrando la scarsa mascolinità di quel corpicino glabro, incerto, poco nutrito, ancora indeciso se mostrare tutta la sua virilità o meno.

«Anche le mutande?», chiese il piccolo.

Il prete sorrise.

«Certo», rispose.

Riccardo le tolse, ed entrò nella vasca.

Qualcosa nella mente del prete cominciò a ribollire.

I suoi ricordi, come una radice che cerca l’acqua, iniziarono ad aggrovigliarsi intorno al cervello, insinuarsi nelle cellule cerebrali, nei suoi sistemi neurali, producendo un black-out temporaneo delle funzioni, irradiando immagini perdute nei meandri encefalici della sua scatola cranica, prepotenti, dissacranti, violente.

Cercò in qualche modo di riavviare il sistema, scacciarle via, ma la potenza di quelle visioni lo percuotevano sistematicamente nel profondo del suo ego.

Si avvicinò alla vasca, mentre il bambino restava immobile nell’acqua incerto sul da farsi.

«Una bella insaponata», disse Padre Alfonso.

Non doveva, sapeva che non doveva farlo.

L’istinto è irrazionale, preda di impulsi che a volte possono essere presupposti di cocenti sensi di colpa. Ma anche quella era una parte del corpo che doveva essere purificata.

Purificazione.

Contaminazione.

Il contatto con la pelle del bambino lo stava dominando, intossicando, la mano che scivolava lentamente su quel corpo liscio, era l’avamposto di una battaglia che sarebbe stata ben più cruenta, fisica e psichica, e poteva risultare una Waterloo devastante.

Prese il suo membro in mano.

Quel piccolo organo, appena accennato, stimolava le sue reminiscenze, ricordi soffusi che stavano prendendo forma nitidamente, flashback prepotentemente riemersi dalle tombe dei sensi repressi.

L’incontro sessuale con la perpetua, aveva provocato evidenti incrinature nelle sue fondamenta spirituali, e adesso stava provocando il terremoto che avrebbe fatto crollare tutta la struttura.

Non riusciva a fermarsi.

Toccava quella giovane verga con evidente cupidigia, movimenti simmetrici della mano stabiliti dall’esperienza. Lo sentiva muoversi, vibrare, avvertiva le leggere variazioni di consistenza, preda di sé stesso, del suo oscillante andirivieni tra il Paradiso e l’Inferno.

«Cosa fai?», chiese il bambino.

«Niente non preoccuparti. Lo sto lavando. Guarda sta diventando grosso!»

«Ma io non voglio che diventa grosso!», rispose Riccardo.

«Si che lo vuoi. Non ti piace? A me piaceva quando lo facevano i miei amici. Non siamo amici noi?»

«S…s…si, ma io non voglio!»

Il bambino cominciò di nuovo ad avere paura. Non si sentiva più al sicuro.

La luce che ammantava quella figura imponente si era spenta, e adesso lo vedeva circondato da enormi lingue di fuoco.

Uscì con un balzo dalla vasca. Il prete teneva ancora in mano il suo membro.

Si divincolò, liberandosi dalla presa, e scappò via come una furia da quel luogo dannato completamente nudo, senza riprendere i suoi indumenti.

La piazza si stava riempiendo di gente.

 

«Ego te absolvo, in nomine…

Continuava senza sosta le sue preghiere. L’immoralità è qualcosa che ti si appiccica addosso, consapevole o inconsapevole non fa differenza, un marchio che silicona l’infamia in ogni poro della pelle, e quando questo si rende evidente agli occhi del mondo, niente può essere utile alla redenzione, nemmeno il pentimento.

«Ave Maria piena di grazia…»

Quella nenia sacrale l’avvolgeva, come una coperta, e spandeva nell’aria della stanza spruzzi di contrizione, spargendola come antidoto contro l’atmosfera funesta che si respirava.

Ma non aveva scampo.

Si era macchiato di un delitto orribile, senza sangue, insinuandosi arbitrariamente fin dentro l’anima di quel giovane corpo, cercando di putrefarla con le sue mani, oggetto fin troppe volte abusato ad un decadimento volgare e distruttivo.

Le grida esterne si facevano sempre più pressanti, più vicine.

Non vi era più tempo per il pentimento. Dio stesso lo aveva abbandonato.

Non lo aveva mai considerato un suo eletto, un esempio di fede, un combattente.

Non era nessuno.

Sua madre aveva ragione.

Allora, perché lo aveva scelto?

“Il disegno divino è incomprensibile…” Lo ripeteva spesso nelle sue omelie, da quel pulpito che ora si stava sgretolando, crollando, insieme ai blocchi di cemento della sua chiesa.

“Lasciate che i fanciulli vengano a me…”. Quel passo del vangelo gli aveva sempre riportato alla mente  una rappresentazione contorta del verbo stesso.

Doveva essere per lui un insegnamento, una dottrina, un impegno a preservare l’incolumità di quelle giovani e innocenti individualità, vulnerabili e sensibili.

Ne coglieva soltanto il senso reprobo, l’orgiastica manifestazione della carnalità, figurazione di una libido deviata che fin dagli esordi si era propagata come una metastasi.

“Mamma guarda quanto è grosso!”

La fede non lo aveva salvato dal tumore.

Il rapporto con la perpetua era stata una prova imprevista, una chiusura di un cerchio lasciato a metà, abbandonato davanti a quelle finestre spiate, osservando l’ostentazione di quei corpi levigati, a volte aggraziati, nelle loro rotondità spesso imperfette, destinati alla più sfrenata concupiscenza.

Inconsapevolmente aveva provocato l’avvenimento di quell’esperienza, ignorandone la causa e gli effetti, senza la minima cognizione delle stimolazioni erotiche avvertite, che avevano prodotto visibili conseguenze genitali.

Ma era un rimedio apparente, la morfogenesi psicosessuale del piccolo Alfonso non era stata completata, e deviata da chissà quali virus embrionali, aveva provocato la sua instabilità.

«Liberaci o signore da tutti i mali…» Il senso di colpa lo stava divorando.

Sentiva i pezzi della sua cane che si staccavano dal corpo, rigurgitanti di un sangue marcio che le sanguisughe stesse avrebbero rifiutato.

«Non c’è più tempo per il pentimento», pensò.

Sentiva battere violentemente alla sua porta. Le grida, ormai, erano entrate sin dentro la stanza. Forconi, torce fiammanti, questo immaginava in mano a quella folla, come ai tempi dell’inquisizione la caccia alle streghe. La porta non avrebbe retto ancora per molto, l’avrebbero preso a forza e bruciato sul rogo.

Non lo avrebbe permesso.

Gli spasmi sarebbero stati tremendi, ne era cosciente, ma nelle loro mani sarebbe stato ancora più terribile. Gli piaceva bere, ogni tanto, del buon whisky, un vizio innocente, quello, e teneva una bottiglia sempre a portata di mano sul comodino.

Cercò nel cassetto la scatola di fiammiferi che usava per accendere la candela votiva sotto l’immagine del Cristo in croce. Lo pregava ogni sera prima di addormentarsi, ma quella volta lo ignorò, aveva speso già troppe parole e non c’era più tempo.

Prese i fiammiferi.

Prese la bottiglia di whisky.

La porta stava per cedere sotto la spinta della folla inferocita.

Aprì la bottiglia e si versò l’intero liquido addosso.

Prese un fiammifero dalla scatola e lo sfregò.

La piccola fiamma prese vita.

La guardò per un attimo, completamente bagnato di quel liquido che molte volte aveva appagato il suo gusto. La fiammella era viva, pronta per compiere il suo dovere.

La avvicinò a sé, e prese fuoco.

 

“EGO TE ABSOLVO…EGO TE ABSOLVO…” Continuava a gridare quella supplica, mentre la sua carne friggeva, si scioglieva, e gli spasmi della terribile sofferenza invadevano il suo corpo e la sua mente.

La porta cedette di schianto.

Troppo tardi.

 

Gli agenti della polizia che erano venuti a prenderlo, avevano bussato ripetutamente alla sua porta, cercato di richiamare la sua attenzione per farsi aprire. Ma la sua mente, ormai, riceveva input diversi, falsati dal germe della colpa, esito inevitabile, generato dall’aberrazione di una psiche corrotta, infettata dal verme di una vita votata alla lascivia.

 

“Polvere eri, e polvere tornerai”.

 

Un mucchio di cenere.

Alla sinistra del Padre.