Lo aveva conosciuto sui banchi di scuola e se ne era innamorata.
Lui no. Non avrebbe potuto neanche volendo. Era morto vent’anni prima che lei nascesse.
Lo aveva conosciuto attraverso le sue poesie dolci e malinconiche
Il “Poetino”, lo chiamavano. Per la sua giovane età e per distinguerlo dal “Lu Poeta”. Uno scrittore affermato, un carico da undici pluripremiato per la sua lirica.
Borioso, quest’ultimo. Abitava in una casa a due piani nella sua stessa via ed era sempre scorbutico con tutti.
Aveva avuto modo di scoprire quanto fosse buzzurro già da quando era più piccola, in un pomeriggio assolato di Luglio.
Ci saranno stati almeno quaranta gradi all’ombra, che quando dice caldo al Sud non scherza.
Le strade deserte, solo qualche cane randagio con la lingua penzoloni a rovistare nell’immondizia in cerca di qualcosa da mangiare.
Le case con le persiane chiuse e il ronzio di qualche ventilatore a smuovere un po’ l’aria, mera illusione di refrigerio.
Spossati dal caldo africano tutti a fare il riposino in canottiera e mutande e sottovesti di nylon. Grandi e piccoli dopo un po’ dimenticavano l’afa e si abbandonavano al sonno.
Lei ci provava, teneva gli occhi chiusi, ma niente. Allora scivolava giù dal letto, percorreva il corridoio in penombra con le infradito in mano, apriva la porta senza fare rumore e sgattaiolava fuori.
Come aprire lo sportello del forno.
Era talmente tanto il caldo che l’asfalto sembrava liquido.
Aveva aspettato su un gradino all’ombra, si era messa le ciabattine e dopo neanche un minuto erano arrivate alla spicciolata altre bambine, come se rispondessero ad un richiamo invisibile.
C’era chi portava una palla, chi l’elastico per saltare, chi un pezzetto di gesso per disegnare la “settimana”.
E poi la conta, per sapere chi aveva il privilegio di cominciare per prima.

“Sette , quattordici, ventuno, ventotto
andai alla fiera a comprare un cappotto
il cappotto era di lana
esci tu fi…glia… di… put… ta… na…”

E le parole erano quasi un sussurro per non disturbare chi dormiva. E sentirsi padrone di quel paese fantasma, come se gli adulti non esistessero più. Fino a quando…
Fino a quando non uscì lui, Lu Poeta, con la retina sui capelli radi e una secchiata d’acqua.
E giù moccoli irripetibili pieni di livore.
Si erano allontanate, erano andate a giocare da un’altra parte. Una di loro presa in pieno era rimasta bagnata pur di non rientrare in casa e correre il rischio di non poter più uscire.
A lei invece era rimasto un senso di disgusto.
“Com’è possibile”, si era chiesta, “ scrivere poesie ed essere così cattivo?”
E che fosse un pezzo di merda lo dicevano i grandi quando parlavano di lui. La cosa peggiore era che avesse presentato suo padre agli amici come suo fattore perché si vergognava di lui in quanto contadino.
Il Poetino no, doveva aver avuto un animo gentile, lui. Lo aveva dedotto dalla sua faccia pulita, sulla copertina della raccolta poetica. Lo aveva immaginato da quella camicia bianca chiusa fino all’ultimo bottone. Amava guardare i dettagli, lei. Ma soprattutto lo aveva “sentito”.
Scriveva d’amore sofferto, forse mai vissuto e le sue parole semplici l’avevano intenerita.
Avrebbe voluto cambiare la sua sorte, la sua morte prematura la facevano soffrire.
Nasceva così il suo amore per la poesia, con l’amore per il poeta.
Ancora adesso quando torna al suo paese va a trovarlo al cimitero.
C’è sempre una rosa rossa tra le sue mani.
Sembra aspettarla. Qualche volta l’è parso di vederlo sorridere da quella foto color seppia.
Ogni tanto ci pensa quando scrive e le piace immaginare che sia lui a sussurrarle le parole…