Il fatto è che io da piccola sentivo mia nonna parlare del bombardamento di San Lorenzo, e dei fascisti.

Che lei a 7 anni aveva perso suo padre, che quando suonava l’allarme era sempre l’ultimo a mettersi in salvo.

Crescendo avevo capito che mio nonno, come tanti nonni della sua generazione, in realtà era un sopravvissuto. Mangiava tanto e si coccolava il suo stomaco eccessivo, perché per il resto della vita era stato secco come un chiodo, un fascio di nervi progettato per salvare se stesso e chi gli capitava a fianco. L’altro nonno era stato deportato, ma poi era tornato a casa, e da allora non c’era stata una mattina in cui non avesse portato il cappuccino a letto a sua moglie. E se c’ero io i cappuccini diventavano due e con mia cugina Emilia tre, anche se era troppo piccola per bere caffè.

I miei nonni hanno tutti patito il freddo di notti annacquate, quando c’era da nascondersi nel tentativo di avere salva la vita, hanno tutti mangiato rane abruzzesi per sopravvivere, hanno tutti guardato la morte in faccia, ma poi, oh sì, ma poi si sono potuti godere l’illusione di averci dato un mondo migliore. L’illusione di aver pagato lo scotto, che certe cose no, fanno troppo male e non devono ripetersi mai, mai…

E così siamo cresciuti aspettando il Natale e i compleanni, invasi dai giocattoli fino a non sapere più dove metterli. E così ci siamo detti: “La Guerra, che cosa assurda, per fortuna che sono nato quando non c’è più, la guerra”, “Per fortuna che sono nato quando l’umanità è rinsavita, e ha capito che la guerra è la cosa più stupida e orribile che esista”.

E così siamo cresciuti protetti, sotto il piumone, nell’illusione di un mondo senza guerre, senza sapere che invece ce ne erano ancora, e neanche troppo lontane. Siamo rimasti lì, ad aspettare il caffelatte zuccherato al punto giusto nel bicchiere un po’ informe da osteria.

Quello col vetro spesso e un po’ opaco, che non si rompe ma se si rompe va in mille pezzi.

Che non si rompe, ma se si rompe va in mille pezzi.

Come il mio mondo, che fino a qualche anno fa sembrava un mondo sicuro, a prova di urti. Un mondo in cui al massimo mi sarei dovuta preoccupare di ottenere un buon lavoro, studiando, meritandomelo.

Un mondo in cui mettere al mondo un figlio senza dover temere un giorno di vederlo riverso a faccia in giù su una spiaggia.

Stamattina guardo l’ennesima foto di una bimba più piccola di mia figlia con le manine inermi che cingono, esamini, il collo esamine di suo padre.

E mi metto a piangere e a sognare un mondo senza mostri. Un mondo in cui non sentirmi un mostro.