C’ero una volta io, che manco quando ero una semplice splendida bambina con un papà ricco e una mamma adorabile (siamo in una favola, doveva essere così ne sono sicura) ho avuto un bel nome: Ella.  Esattamente, “Quella là”, come a sottolineare “tanto sarà sfigata, manco ci preoccupiamo di darle un nome”. Da quando son diventata famosa son Cenerentola, Cinderella o l’impronunciabile Aschenbrödel per la versione tedesca (come se non avessi già abbastanza dispiaceri).
Comunque dicevo, prima di esser riempita di cenere e prima che mi affibbiassero ‘sto soprannome del cavolo, ero una bambina felice con una mamma e un papà.
Visto che se fosse andato tutto bene nessuno si sarebbe accorto di me, mi fanno morire la mamma.
E visto che come disgrazia pareva poca cosa – Bambi, Nemo, Biancaneve, e una lunga lista di nomi illustri già go-devano della stessa sorte, fatta eccezione per Pinocchio, che non pareva neanche figlio del su’ babbo – che fa il mio, di babbo? Si sposa Matrigna Cattiva. Che poi, anche ad occhio disse il cieco, non è che c’era da aspettarsi che a dispetto del nome fosse una santa. Dalla sua aveva il precedente: era un usato garantito. Qualcun altro ci aveva già fatto due figliole, Anastasia e Genoveffa. Aiutatemi a dir brutte!
«Falle esse’ anche stronze», avrebbe aggiunto il grillo parlante se fosse stato provvisto di ironia. E loro invece stronze lo erano forte.
Insomma, morta la mamma, ingrandita la famiglia col peggio che poteva esser raccattato fra i reietti della società del regno, il mi’ babbino, pace all’anima sua, decide di levarsi da questo mondo e mi lascia nella m… (avete capito). Scusate se son scurrile, ma anche se son passati un bel po’ d’anni mi rode ancora il deretano.

Fatto sta che, dicevamo, morta mamma e morto papà, visto che una famiglia adottiva ce l’avevo e che alla signora Matrigna Cattiva serviva una sguattera, mentre cresceva le adorate figliole come se fossero belle e sane di mente, a me toccava fare la lavasciuga. Tra l’altro un freddo boia! Se almeno fossimo vissute, che ne so, a Bali, non avrebbero acceso tutti quei camini. Spalare la popò non sarà un bel lavoro, direte voi, poteva andarmi peggio, direbbero gli ottimisti, ma vi assicuro che togliere la cenere da ovunque senza vaporetto o anche pezzentissimi aspirapolvere è un lavoro infinito. In pratica la sposti da una parte all’altra, finché non sei ben felice che ti si appiccichi al corpo e ai capelli, che almeno la puoi portare dove ti pare e stiparla dove le arcigne dei piani nobili non ti vedono, anche se questo poi significa che i tedeschi ti chiamino Aschenbrödel e non sai se ti stanno insultando o solo invocando il tuo nome invano.

Ho anche dei forti dubbi che io stessa fossi bella e sana di mente. Bella magari l’ero bella, perché sapete tutti com’è andata: un principe, di quelli azzurri azzurri, mica un quaquaraquà qualunque. Però, ecco, sulla sanità mentale lascerei la parola ai miei amici Tobia (un cane, e fin qui ci sta), Major (un cavallo, e anche qui lo spirito di Spirit è salvo), Jaq e Gas Gas (topi, con relativa infinita famiglia al seguito. Vestiti di tutto punto da me medesima, e ne andavo anche orgogliosa), e vari ed eventuali uccellacci del malaugurio che mi svegliavano a secchiate in faccia la mattina mentre io li credevo miei amici fidati.
Insomma, passano i giorni e io canticchio (sempre perché ero ancora sanissima di mente), e canticchiando canticchiando, mi cheto al momento opportuno solo per sentire il gossip del momento. Il re, stufo di avere un principe azzurro azzurro ma scapolo scapolo, indice un ballo al quale sono invitate tutte le fanciulle del regno. Una sorta di ultimatum per il single incallito; un’occasione di vedere gente, finalmente gente mi auspico con una parvenza di normalità, per me. Mi sento improvvisamente una fanciulla del villaggio, arrangio un abito alla bell’e meglio, ne vengo fuori uno splendore allegro, ma le due arpie sostengono che il mio patchwork sia il risultato di furti a loro spese. Tutti i torti non ce l’hanno, però c’è modo e modo di reagire. Il loro è ahimè strappare il patchwork e asserire che sono tornata impresentabile. E buonanotte al secchio (non vi stupirete se gliel’ho data veramente).

Quando la vita si fa dura tu che fai? Io piango. L’avessi fatto anzitempo, invece di canticchiare, avrei scoperto prima di avere una fatina madrina. Tutta rifinita non era manco lei (il fatto che si chiami Smemorina la dice lunga sulla sua personalità). Con un paio di bestie e una zucca imbastisce una carrozza e con due colpetti di bacchetta magica (vi risparmio il racconto sulla fatica che ha fatto a ricordarsi dove l’avesse messa, quasi potesse farne a meno) mi cuce addosso un vestito principesco. La bacchetta gli si deve essere impicciata sulle scarpe, modello antianatomico in cristallo. Vabbè, alla fine non mi lamento perché sono state loro a salvarmi il culo. Ma non voglio anticiparvi niente (che già non sappiate). Mentre salgo in carrozza la svitata si ricorda di essere anche bacchettona e mi avverte che l’incantesimo svanirà a mezzanotte in punto: se non fossi rientrata in tempo, assicurata enorme figura di m… (anche questa è chiara oppure vedete soluzione sopra, se ci eravate già arrivati) davanti a tutto il circondato. Non che avessi una reputazione da difendere, ma, ecco, certe figuracce preferivo rimanessero fra le pareti domestiche. Per questo prendo nota dell’ultimatum, ringrazio e mi metto in carrozza verso il castello.

Amici (permettetemi la familiarità, ci si conosce da anni ormai), il castello era una figata! Per chi ci fosse stato ricordava molto il Castello di Neuschwanstein (sempre musicalissimo nome tedesco) in Germania. Oppure l’ancora più famoso castello delle principesse a Disneyland. Una favola!

Giungo mentre il principe azzurro azzurro sbadiglia ad ogni fanciulla che gli viene presentata. Decido allora, per farmi notare, di fare lo sguardo da finta ingenua capitata per caso da quelle parti e la strategia funziona alla perfezione. Azzurro azzurro ma anche allocco allocco, per mia fortuna. Tanto allocco che balliamo per ore senza che abbia mai il coraggio di chiedermi il nome (che se avessi dovuto rispondergli Aschenbrödel non avrei saputo pronunciarlo, quindi forse meglio così). Insomma, non è che mi aspettassi un bacio, che si sa che nelle favole puoi morire prima che si sveglino (o ti sveglino) per dartelo. Ma una chiacchiera, un paio di domande giusto per farmi capire che non era attratto solo dal mio aspetto fisico. Devo ammettere che anche io ero comunque affascinata da questa forma di vita a due zampe e senza ali e neanche mi sono accorta che stava per scoccare l’ora della figuraccia. L’implacabile orologio del palazzo invece aveva la suoneria al massimo e mi sveglia dall’incanto e dall’incantesimo. Corro come una pazza verso la carrozza prima che si ritrasformi in zucca e mi tocchi tornarmene a piedi, ma ovviamente le mie sportivissime scarpette non seguono il mio slancio da atleta riscoperta e ne perdo una, dal principe azzurro azzurro feticisticamente raccolta e conservata.

È pazzo di me, non ce n’è più per nessuno. Anche io ho gli occhi a cuoricino e blatero invece che il mio normale pazzo canticchiare. Il silenzio dalle mie cantilene mi permette di ascoltare il secondo gossip del regno: il principe azzurro azzurro è risoluto risoluto a ritrovarmi e indice un altro bando di concorso, meno stile “Miss Italia” e più alla “Ma come ti vesti?!”. Tramite l’unico indizio, scarpetta di cristallo, vuol portarsi a casa il suo tesoro, che sarei io. In un mondo incantato è facile che io sia l’unico 33 in tutto il regno: le proporzioni con la caviglia da elefante che mi hanno disegnato non contano! Solo che questa volta non sono scaltra come al ballo: mi faccio beccare da Matrigna Cattiva emozionata e imbambolata alla notizia dell’imminente arrivo a palazzo del cacciatore di taglie di scarpe e quella mi rinchiude nella torre più alta del palazzo, nascondendo la chiave nella tasca del suo vestito collezione inverno-estate-primavera-autunno.

Fortuna volle che i miei amichetti immaginari tanto immaginari non lo fossero e abbiano capito al volo la situazione. Al grido di “libera subito o questa si rimette a cantare” organizzano un piano che neanche i Pinguini di Madagascar e riescono a impadronirsi della chiave e liberarmi proprio alla fine di ogni vano tentativo delle mie adorate sorellastre di far entrare il loro goffo 42 nel mio candido 33.

Matrigna Cattiva impallidisce nel vedermi scendere la scale e presentarmi al provino. Sconfitta ma non battuta, ac-ciambella il ciambellano facendo rovinare irrimediabilmente al suolo la scarpetta, che si disintegra in mille pezzi (“a mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar…” . No, neanche nelle migliori occasioni perdo il mio vizietto di canticchiare). Il ciambellano acciambellato sbianca temendo di venir decapitato, Matrigna esulta, Anastasia e Genoveffa starnazzano, e io splendida splendente vittoriosa entusiasmante mostro l’altra scarpetta di cristallo, summo cum gaudio del ciambellano e del Principe che diventa ancora più azzurro dall’emozione.

Insomma, ne ho passate tante prima di diventare un’eroina di aspiranti principesse e Pretty Woman, ma quel che conta è mi sono potuta rifare una vita dal finale romantico: matrimonio senza badare a spese e il tanto agognato “e vissero per sempre felici e contenti”.
Tranne ovviamente per quei rompiballe dei tedeschi, per i quali il massimo del romanticismo è invece racchiuso nel finale “se non son morti, vivono ancora adesso”. Non fa una piega. Ma non c’è ombra di soddisfazione.