Veniva giù a larghi fiocchi, eterea, nel silenzio più totale, leggera come una piuma, da un cielo grigio come piombo, anzi no, come acciaio. Si posava sul terreno come una morbida coperta e si disintegrava in polvere finissima sotto i piedi degli uomini che camminavano attoniti, senza sapere dove andare. Ciechi.

Grigia, soffice, soffocante, non smetteva di scendere dal cielo. Cenere.

Ayako camminava tenendo per mano la madre, incapace di capire cosa stava succedendo. La vedeva incedere come un fantasma nella nebbia, lenta, guardando sempre e solo avanti. Avrebbe voluto correre, affondare nella cenere morbida, giocare a sollevarla con le mani, tirarla agli altri bambini. Ma non c’erano bambini intorno a loro. Ogni tanto vedevano altre persone avanzare come spettri grigi, apparire nella nebbia e poi sparire chissà dove.

Ayako guardò dietro di loro, le orme che avevano lasciato: piccole le sue, più grandi, ma non di molto, quelle della madre. Chissà come sarebbero quelle di mio padre, pensò. Ma Eijiro era lontano, sul mare, diceva sempre la nonna.

«Mamma, mamma, dove andiamo? Sono stanca!» piagnucolò Ayako, più per attirare l’attenzione che per altro, ma la madre continuava a non rispondere. Allora la bambina diede un brusco strappo alla mano, e la madre sobbalzò. Un altro strappo, e volse lo sguardo su di lei.

«Sembra neve, mamma!» disse Ayako, mostrando il pugnetto pieno di cenere «ma non può essere, vero? È calda, e poi siamo in agosto».

Un alito di vento, come il colpo d’ala di un gabbiano, sollevò la nebbia intorno a loro, e comparvero neri monconi di legno bruciato che si alzavano verso il cielo come dita scarnificate che lanciavano un muto atto di accusa. Più lontano, alcuni edifici isolati sembravano intatti, ma degli antichi quartieri di legno non esisteva più nulla.

All’improvviso la madre si chinò e prese Ayako tra le braccia, sollevandola e stringendola forte. La bambina sentì il calore del suo corpo e si appoggiò a lei con la testa. Tutto d’un tratto aveva freddo, ma sentiva la pelle bruciare, bruciare da dentro. Tremava.

In un gesto istintivo alzò la manina verso i capelli della madre, in un accenno di carezza, ma invece di sentire la loro morbidezza di seta la ritrasse stringendone un ciuffo nel pugno, grigi, morti.  Spalancando gli occhi li mostrò alla madre, ma quella la strinse ancora più forte, continuando a camminare nella pianura che adesso sembrava infinita.

Ora il vento si era sollevato più forte, come se volesse ritornare a riempire il vuoto d’aria causato dall’immane esplosione, e con esso giunsero le voci, i lamenti, flebili, lontani.

Ayako era sempre più spaventata,lacrime gli gocciolavano dagli occhi arrossati, rigandole le guance sporche di cenere. La madre infine si fermò e sedette su una larga pietra rovesciata, il frammento di un altare.

Per alcuni istanti rimase ferma, poi appoggiò il capo sulla spalla e scivolò di lato, fino a coricarsi. Ayako le batté sulla schiena, spaventata: «Mamma! Mamma! Stai male? Cosa succede mamma, sento bruciare dentro!».

La bambina piangeva percuotendo il corpo inanimato della madre. Un uomo passò come in trance vicino a loro ma non si fermò né le guardò.

«Mamma, cosa hai? Perché non ti svegli?» Poi, in un barlume di comprensione: «Moriremo?».

Lontano, nel cielo grigio di Hiroshima un’aquila di argento tornava a casa dopo avere sganciato il suo uovo avvelenato. Tre giorni dopo un altro uccello assassino avrebbe ripetuto quel macabro rito, e il mondo non sarebbe stato mai più come prima.