La macchina era partita. Beh, già qualcosa, no? Considerando che da un paio di giorni, ogni tanto, si metteva d’improvviso a singhiozzare proprio come un cristiano quando qualcosa gli va di traverso, non ci sarebbe stato nulla di strano se giusto quella mattina avesse deciso di fargli lo scherzo d’entrare in sciopero. Per questo Federico aveva incrociato le dita e girato la chiavetta dell’accensione della sua NSU Prinz, carica come un somaro già da prima che si facesse venire il coccolone. D’altra parte dentro l’abitacolo di fatto ci aveva stipato un po’ tutta la sua vita, o almeno quanto aveva giudicato meritevole di essere preso e portato via. Il resto della sua roba era rimasto a casa, o meglio nella sua ex casa, con la sua ex moglie, da cui, casa e moglie, si separava definitivamente giusto accendendo quel motore. Se ne andava via, una volta per tutte, da quella città che avrebbe ricordato forse solo per la nebbia onnipresente e per la freddezza scostante della gente. Beh, magari non proprio tutta… sì, insomma, qualcuno s’era pur lasciato avvicinare. Anche di un bel po’, d’accordo… però socializzare, in quel posto, era difficile e problematico, anche facendo finta di ignorare i continui rigurgiti di razzismo in cui inciampavi quasi ad ogni passo.
A dirla tutta aveva rimandato il trasferimento del lavoro il più possibile, macerato dal dubbio che le sue cose potessero mettersi diversamente. E non tanto sul fronte del fallito matrimonio, che quello ormai era un punto sicuramente archiviato; quanto piuttosto per un po’ tutta la vita e la gente che gli era ruotata attorno in quei complicati mesi che avevano seguito la rottura con la ex. Magari gli avrebbe fatto comodo un altro po’ di tempo: per capire cosa voleva veramente dalla vita, dal lavoro, dai nuovi amici, dalle donne che aveva conosciuto. Ma tempo ulteriore non gliene era stato concesso: aveva dovuto scegliere se rinunciare al trasferimento, restando dov’era senza la certezza di poter un giorno avere un’altra occasione di andarsene, o prendere quel “treno” lì che, almeno sulla carta, era l’ultimo che gli permetteva di tornarsene a casa.
Chissà: e se quel tossicchiare del motore in quegli ultimi giorni fosse stato un segno che il destino gli mandava? Poteva anche essere. Lui non credeva nei segni del cielo, men che mai nelle volontà divine. Credeva però nelle combinazioni strane e quella lo era senza dubbio. D’accordo, l’auto era vecchiotta e logora, persino stanca avrebbe detto qualcuno. Però il motore era di quelli tedeschi, mica un Fiat da due soldi come quelli che mettevano insieme proprio nella città da cui scappava! Insomma, magari era anche un luogo comune, ma i crucchi bisognava lasciarli perdere quando si trattava di motori: quelli che facevano loro parevano quasi eterni! E allora, che si fosse messo a fare le bizze proprio prima di partire, quando mancava il tempo materiale di andare da un meccanico, a meno di non rimandare la partenza, voleva forse dire qualcosa? Vai a capirlo: d’altra parte la stanza in pensione l’aveva disdetta da tempo, le cose da portare impacchettate e l’auto stipata ben bene. Insomma come poteva non partire? C’erano stati i saluti, gli addii, i pianti, gli ultimi frenetici e disperati amplessi.
Magari qualcuno, o meglio qualcuna, giusto ripensando a quegli amplessi, sarebbe stata anche felice se avesse cambiato idea e fosse rimasto; ma proprio per questo, non partire sarebbe stata la mossa peggiore. Anche perché, ad essere sinceri, quella qualcuna non era nemmeno una sola; e allora tutto era troppo complicato! Avrebbe finito per alimentare speranze che lui, Federico, in tutta onestà non era in grado di garantire. E non lo diceva con leggerezza: avrebbe voluto che le cose stessero diversamente, ma non era così. Desiderava troppo tornare a casa sua; quella città non andava bene per lui e, per altri versi, non credeva nei rapporti a distanza. Non duravano, per quanto veri e profondi potessero essere.
Così, tra un dubbio e l’altro, aveva deciso di affidarsi alla sorte. Se quella macchina, nonostante tutto, riusciva a riportarlo a casa voleva dire che aveva fatto la scelta giusta. Altrimenti sarebbe rimasto per strada e, allora, avrebbe cercato un’altra soluzione, vattelapesca quale. Così, con gli occhi chiusi, aveva girato la chiavetta dell’accensione, aveva ascoltato il motorino gracchiare ed i primi scoppi nei cilindri. Tutto normale pareva, nessun ansito, né singhiozzo. Si partiva: sarebbe stato quello che il destino aveva messo in serbo per lui.
I chilometri da fare erano tanti. Quattro anni prima, li aveva percorsi in senso inverso, con l’auto un po’ meno vecchia e anche meno carica, per venire a scoprire la città dove lo avevano assunto dopo aver vinto il concorso. “Vinto” era una parola grossa: diciamo ch’era risultato idoneo, neppure lui sapeva come, visto che per l’orale s’era preparato poco o niente. Forse s’era salvato perché lo scritto era stato buono e la commissione che lo aveva interrogato sicuramente generosa.
Poi avevano assunto tutti, ma proprio tutti, vincitori e idonei. Era stata una fortuna, perché quel posto fisso era arrivato giusto in tempo in una situazione, tra lui e la moglie, ch’era piuttosto in bilico. Lei lo aveva raggiunto dopo qualche mese, una volta trovata una casa da affittare e i primi mesi erano andati decentemente. Poi i nodi di quel rapporto complicato avevano cominciato ad intricarsi di nuovo, fino ad arrivare al pettine dell’inevitabile, burrascosa e tormentata separazione. Neanche a farlo apposta, quasi in concomitanza era arrivato pure il trasferimento, altra combinazione da non sottovalutare e, soprattutto, da interpretare.
E ora era lì a “rifare” quell’autostrada in senso inverso. All’andata gli era parsa sì fredda ed anonima, ma lo portava verso una speranza, una novità, una prospettiva. Adesso la percorreva lasciandosi alle spalle un pezzo piuttosto consistente della sua vita che doveva trovare il modo di digerire. Hai voglia a dire che chiudi un capitolo per aprirne un altro. Parole, giuste, per carità, generose e dette per aiutare, per sostenere. Ma i capitoli della vita li distingui bene solo quando, e se, angosce e passioni in te hanno trovato pace. Mentre ci sei dentro tutto è confuso ed oscuro: non hai la minima idea di dove inizino e, soprattutto, finiscano. È grasso che cola se ti limiti a sentirti un fuscello in balia delle onde di un banale rivolo generato dallo scroscio della pioggia. Più facile ti paia d’essere naufrago solitario e sperduto nel bel mezzo di un oceano in burrasca.
Di qui la necessità che Federico provava d’affidarsi ai segni ed alla sorte, ch’era chiaramente figlia della sua impotenza a capire. Forse era presto per dirlo ma, a quanto pareva, “laddove si puote ciò che si vuole…” avevano deciso che si tornava a casa ed ora, mentre cercava di rilassarsi nella guida e gli scorrevano accanto i cartelli delle indicazioni stradali, provava ad interpretare quanto aveva dentro, la sua emozione più autentica. Da quando la prospettiva del trasferimento s’era affacciata sul suo orizzonte, più volte aveva provato ad immaginare quale sarebbe stata la sensazione nell’attimo in cui la partenza si fosse trasformata da mera ipotesi a fatto reale.
Ora ci stava dentro: la macchina era carica di quello che gli “avanzava” dei suoi defunti progetti di farsi una famiglia, era entrato in autostrada e la pianura monotona, apparentemente senza fine faceva da perfetto fondale al suo riflettere. Provò ad immaginare quale colonna sonora avrebbe scelto se quella fosse stata la scena di un film. L’unica cosa che gli veniva in mente era The Sound Of Silence, il brano che aveva consacrato il successo di Dustin Hoffman ne Il Laureato, una decina di anni prima. Ma, a ben pensarci, ben poco aveva a spartire con la sua situazione. Lì Dustin inseguiva testardamente e contro ogni logica un sogno mentre lui stava semplicemente mettendo la parola fine a quella ch’era stata un’illusione che aveva coltivato sfidando la ragione e di cui ora pagava il prezzo, senza sconti.
Gli venne voglia di spingere al massimo l’acceleratore, giusto per fuggire più rapidamente ma, proprio appena aumentò la pressione sul pedale sentì che il motore pareva ingolfarsi. Meglio non rischiare e continuare con quella velocità di crociera: un’ora in più o in meno per arrivare a destino, non avrebbe fatto differenza alcuna.
Arrivare a destino, apparentemente, significava tornare a casa. In verità non era proprio così. Aveva sì in programma di fermarsi dai suoi genitori, ma non era lì che veramente andava. Era una sistemazione provvisoria, per il tempo necessario a trovarne un’altra stabile, visto che il lavoro lo portava nella capitale e non era pensabile che si mettesse a fare il pendolare dalla provincia dove era nato e cresciuto e dove la sua famiglia continuava a vivere. Ad essere onesti non era solo la prospettiva del pendolarismo che lo preoccupava. In casa non avevano ben digerito quella sua separazione e Federico ormai aveva un’età in cui non poteva più sopportare che nelle sue cose loro s’immischiassero come quando viveva in famiglia. No, si sarebbe fermato lì, nella casa dov’era cresciuto, giusto il tempo di trovare una qualche soluzione: si contentava di partire trovando una pensione, a Roma. Il seguito era tutto da inventare.
Bella giornata quella che aveva scelto per partire: essendo la fine di agosto, non c’era nulla di strano. Però, da quelle parti, non sempre era così. Ricordava benissimo la prima estate, dopo essere arrivato e prima ancora che lo raggiungesse la moglie: pioveva quasi sempre. E ricordava altrettanto bene di aver pensato che quello non era per niente un buon segno. Amava troppo il sole, i colori, l’aria festosa delle splendide giornate piene di luce e calore che aveva lasciato partendo dalla sua terra. Quella del clima era una delle ragioni che aveva avuto un suo peso sulla bilancia della decisione di accettare il trasferimento. Non che fosse un meteoropatico, ma le giornate uggiose e umide andavano bene ed erano anche poetiche, quando costituivano l’eccezione, non la regola come pareva funzionasse in quella città, contribuendo ad accentuarne l’aria triste e un po’ squallida di metropoli industriale che aveva venduto l’anima al profitto capitalista.
Visto che a qualcosa bisognava pur pensare su quel nastro d’asfalto dritto e monotono, Federico si ritrovò a tentare un qualche bilancio. Ormai aveva capito che il fallimento del matrimonio rientrava di diritto nella serie degli eventi ampiamente annunciati ai quali ci ostiniamo a non dare credito fino a quando non siamo costretti a prenderne atto. Come coppia, lui e la ex non funzionavano; sarebbe bastato provare a distaccarsi dal coinvolgimento emotivo anche solo un attimo per capirlo. Ma non lo avevano fatto o forse era più giusto dire che avevano avuto paura di farlo. E quando tutto era irrimediabilmente crollato alla prova vera della convivenza quotidiana, passato il momento del dolore, s’era rassegnato, finalmente, a quello che rappresentava l’unico logico epilogo di quel bel casino ch’era la loro storia.
Non che fosse stato facile: il senso di solitudine e la vita stravolta sono duri da mandar giù. In qualche modo gli aveva giovato buttarsi a capofitto in nuove amicizie e in qualche storia di letto, ma non ne era venuto fuori niente di realmente coinvolgente, non per lui almeno. Non negava di provare anche affetto per queste storie. Ma pure se in alcuni momenti gli era sembrato che ci potesse essere qualche cosa di più del richiamo dei sensi, s’era presto reso conto che ci voleva tempo, molto tempo per togliersi di dosso l’inevitabile corazza che aveva indossato nel momento in cui il dolore per la resa era stato feroce e devastante. Bisognava innanzi tutto ridare un senso alla vita e questo ora stava cercando, alla resa dei conti, a partire dalla strada su cui stava viaggiando.
Hai un bel prepararti ai momenti di distacco… alla fine un po’ ci stai male, inutile negarlo. Un grande senso di solitudine gli stava calando addosso. A tratti gli pareva d’essere lontano da tutto e da tutti, un’autentica isola sperduta in un oceano senza fine. Con un qualcosa di archiviato alle spalle ed una gran confusione su quanto aveva davanti a sé. Una macchina carica di brandelli della sua vita, ed una vita, appunto, da reinventare. Un’opportunità in fondo, per la quale c’era un prezzo niente male da pagare, ma pur sempre un’opportunità. Alla resa dei conti, era ancora presto per un vero bilancio, meglio restare aggrappati a quel nastro d’asfalto che si srotolava sotto le ruote.
Dopo un almeno tre ore, quando il paesaggio s’era fatto un po’ meno piatto e più volte aveva sfiorato il mare luminoso e brillante, magicamente svuotato di gran parte dell’orda famelica dei vacanzieri, aveva fatto una sosta per il caffè, per fare rifornimento e sgranchire un poco le gambe. Una volta ripresa la strada, il motore sembrava aver ritrovato un ritmo meno asmatico. Poteva anche provare ad accelerare senza che ci fossero strane reazioni. Ma perché farlo? Che fretta c’era? Mano a mano che si allontanava dal feudo della Fiat, i suoi pensieri avevano perso gran parte della tristezza dei primi chilometri. Merito forse del mare, magari in combutta col fatto che, alla resa dei conti, nei giovani la voglia di vivere ha quasi sempre, e giustamente, la meglio sulla melanconia.
E mentre giusto rifletteva che, in fondo, come diceva sua nonna “per ogni porta che si chiude, un portone si spalanca”, improvviso ed inatteso gli piombò in testa come un falco sbucato dalle nuvole un pensiero scioccante: “E se invece tirassi dritto? Sì, se saltassi il bivio che porta verso casa – al quale ormai non mancava moltissimo – e continuassi dritto, sempre verso sud, verso il sole ed il caldo?”. Per andare dove? Era la domanda che si affrettava a seguire una prospettiva così balzana e inattesa. L’aveva colto di sorpresa, mentre finalmente il motore pareva essersi liberato dei suoi guai, alla maniera misteriosa e quasi ieratica che usano i motori talvolta in questi casi. Stava viaggiando più veloce e la strada veniva divorata ora con facilità, senza esagerazioni, ma più rapidamente di prima e, senza preavviso, s’era ritrovato a vagheggiare quella curiosa prospettiva.
Non aveva la minima idea di dove sarebbe potuto andare. Dire “dove ti porta la strada” non è che abbia un vero senso compiuto ma, a ben pensarci, chi poteva dirlo con certezza? In fondo non lo aveva mai fatto e, di conseguenza, ogni affermazione in proposito non poteva che essere mera ipotesi. Affidarsi al destino, per chi preferisce essere cullato dalle grandi parole. Ma, visto che si trattava di ricominciarla da capo, la vita, beh, allora, si poteva anche tentare di essere drastici e cancellare ogni cosa ch’era stata, bene o male che fosse, azzerare errori ed orrori, pulire la lavagna, infilare un foglio bianco sul rullo della macchina da scrivere e mettersi a pigiare i tasti d’una nuova trama. Perché no? Certo lui sarebbe rimasto lui: da se stesso non poteva certo fuggire… ma l’esperimento di buttarsi completamente in braccio al nuovo, poteva anche farlo, no?
Ma certo che poteva anche farlo, chi glielo impediva? Aveva trent’anni. Non erano pochi, ma neppure tanti, in fondo. Era possibile dare un bel calcio a quella che era stata tutta la sua vita e cominciarne una nuova. Cosa c’era da salvare in quello che aveva fatto sin lì? Nulla che valesse veramente la pena, almeno sul piano materiale. Il resto, l’anima, se la portava dentro sempre e comunque.
E se a casa disapprovavano, beh, non sarebbe stata una grande novità neanche quella! Sarebbe stato invece un gran bel cambiamento per lui fottersene dell’altrui giudizio e provare, per una volta, a mandare al diavolo, per non dire di peggio, convenzioni e supposti doveri. Niente altro che luoghi comuni e pregiudizi, andando a stringere, no?
Fosse nato americano, sarebbe stato di sicuro tutto più semplice: lì la gente cambia città e vita con la stessa facilità di una maglietta o d’un pantalone. Fa su una bella borsa, al massimo riempie un carrellino attaccato all’auto, vende o regala il resto e via, parte senza voltarsi indietro. Ricomincia da capo. Da noi è tutto terribilmente più complicato. D’accordo: il lavoro, i soldi, la famiglia che ti ha cresciuto, gli amici con cui hai diviso tanto se non tutto, le radici che fanno gran parte di ciò che sei… tutto verissimo? Ma c’è forse una legge che impedisce di provare a reinventare la propria storia? In fondo aveva più d’un mese di ferie da prendersi… coi soldi magari non c’era da scialare, ma poteva farcela se non s’imbucava in cose strane e stava un po’ attento. Ed il contenuto della Prinz era il compendio del suo mondo: altro bagaglio vitale non ne aveva. Quelli di casa avrebbero fatto storie di sicuro ma, alla resa dei conti, dal loro punto di vista lui era già un caso disperato se non già una causa persa e, quindi l’avrebbero accettata come l’ennesima bizzarria d’un figlio ch’è venuto fuori così, che vuoi farci? Tanto valeva provare…
Fu nell’eccitazione liberatoria di quel pensiero che però il destino fece la sua scelta, come sempre avviene poi nella vita. E lo fece alla sua maniera, cogliendo Federico di sorpresa: improvvisamente l’auto iniziò a tirare da una parte ed un rumore sinistro crebbe d’intensità nel retrotreno. Un niente bastò a capire che una gomma era andata. Per fortuna era una di quelle posteriori e fu relativamente facile controllare la sbandata e diminuire la velocità sino a arrestarsi nella corsia d’emergenza. Una volta fermo, Federico si rese conto che aveva bisogno di respirare: aveva praticamente smesso di farlo per tutta la durata della manovra, intanto che stringeva con forza il volante diventato durissimo. Cercò di svuotare completamente i polmoni mentre apriva il finestrino per poi inalare violentemente aria fresca. Stava sudando.
Fu una bella impresa riuscire a tirar fuori la ruota di scorta dalla marea di bagagli che la ricoprivano. Non meno difficile fu alzare l’auto col cric, mentre accanto gli rombavano auto lanciatissime a velocità che ora, appiedato a lato strada, gli parevano assolutamente folli e criminali: lo spostamento d’aria, ogni volta, gli dava la preoccupante sensazione che la NSU oscillasse in modo pericoloso.
Quando finalmente l’operazione fu conclusa, Federico era stremato, certo più dalla tensione che dalla fatica, sporco e sudatissimo. Come non bastasse, lo stato della gomma di scorta non era per nulla rassicurante. Non gli era passato per la testa neanche un attimo di controllarla prima di partire e anche un deficiente poteva rendersi conto ch’era stato un errore bello e buono. Di quella che aveva tolto era di fatto rimasto solo un cerchione ammaccato che aveva sistemato ad incastro in uno spazio tra una scatola ed una sacca, sull’altro sedile anteriore. E dopo un po’ ch’era ripartito – giusto mentre stava riflettendo sul fatto che, in quelle condizioni, qualsivoglia idea di lanciarsi in avventurosi cambi d’itinerario si prospettava come ad alto rischio e che, anzi, bisognava trovare un gommista, il prima possibile, perché se quella specie di caciotta che aveva montato avesse ceduto prima, allora sì che quel viaggio si sarebbe ingloriosamente chiuso trainato da carro attrezzi – neanche se a pensarlo se la fosse tirata da solo, sentì che i suoi timori erano tutt’altro che infondati. Visto che andava piano, gli fu facile condurre di nuovo l’auto in corsia d’emergenza e fermarsi, per scendere e constatare sconsolato che la caciotta, come temuto, aveva alzato anche lei bandiera bianca.
Meno male che, nella sfortuna, tutto sommato gli aveva detto bene ed il secondo stop s’era verificato quando ormai era fuori dall’autostrada e nei pressi di un’area di servizio. «Gambe in spalla e pedalare», gli avrebbe detto il suo allenatore di rugby, quando da ragazzo, si divertiva a correre con la palla ovale. C’era ben poco da inventarsi. Bisognava trovare un telefono… e sperare che a casa dei suoi ci fosse qualcuno… o magari ritrovare un qualche vecchio amico, uno che non si fosse scordato di lui quanto bastava per venirlo a salvare, come altre volte era accaduto in tempi che sembravano lontanissimi. Le radici, insomma.
Capitolo chiuso allora: in fondo questo viaggio non è diverso da tanti altri. Ogni volta, in qualche modo, si mette la parola fine ad un qualche passato e si comincia una sorta di nuovo giorno. Ci si ritrova, per dirla in maniera scontata. A ripetere gli stessi errori magari, a ripercorrere strade note, ad esplorare gli stessi scaffali del supermercato della vita, ad uccidere gli stessi fantasmi. C’è un gatto abitudinario in ciascuno di noi, che è pronto a fare le fusa per la medesima carezza di sempre. Senza stancarsi mai.
Perché chiudere capitoli e cambiare strada nella vita può anche essere molto eccitante, non ci piove. Ma quando ti decidi a farlo è meglio che tu abbia le gomme a posto.