Scendendo sul Chicago Municipal Airport l’aereo aveva fatto un largo giro per disporsi contro vento.  Dai finestrini di destra del Douglas DC-3 Patrick Sweeney vedeva la superficie scintillante del lago Michigan allontanarsi e poi sparire durante la virata, mentre le luci nella carlinga si erano già accese per avvisare i passeggeri di allacciare le cinture e prepararsi all’atterraggio.

Da sempre il vento era la maledizione di Chicago, questo Patrick lo ricordava bene dai tempi in cui era Paddy O’Reilly e cercava riparo alle raffiche impietose di pioggia camminando rasente ai muri, e forse per questo le piste dell’aeroporto si incrociavano perpendicolarmente in una bizzarra croce di Sant’Andrea, per consentire ai velivoli di scegliere le condizioni migliori.

Nonostante tutto ciò l’aereo incassò nella traiettoria di discesa un paio di scossoni che fecero sobbalzare più di un passeggero, prima di poggiare le ruote sul cemento per la rullata finale verso il terminal.

Come fu finalmente fermo, una scaletta mobile si affiancò al bimotore, e i passeggeri furono fatti salire su un pullman per superare il breve tragitto da lì al terminal. Giunti che furono all’ingresso, i viaggiatori dovettero superare una prima porta che introduceva nel corridoio e una seconda che portava alla sala degli arrivi, dove c’erano da superare i controlli per accedere finalmente al territorio americano.

Il Chicago Municipal Airport era famoso per la quantità di passeggeri che transitavano ogni giorno per le sue sale, ed anche ora non si smentiva: torme di uomini frettolosi si spostavano continuamente da una parte all’altra, dando l’impressione di un’attività frenetica.

I passeggeri sbarcati dal DC-3 e appena transitati dalla dogana ebbero un momento di smarrimento, in cerca della migliore uscita o di parenti e amici in attesa, ma un nugolo di reporter guidato da una donna di mezza età piombò risolutamente in mezzo a loro, inondando di flash il povero Patrick, che cercava di farsi riparo con una mano e sorrideva nervosamente, a disagio. Che differenza con il periodo in cui era dovuto partire di nascosto con i suoi salvatori irlandesi! Gli altri viaggiatori gli fecero largo, curiosi ma infastiditi da quella scena, così la donna poté piombargli indisturbata addosso e afferrarlo per un braccio.

«Prego, prego mister Sweeney, da questa parte!».

Lui si lasciò trascinare senza reagire in un angolo, dove fu alla completa mercé dei fotografi e, quando questi ebbero finito il loro lavoro, dei giornalisti del Tribune, del Sun, del Reader e di tutti gli altri quotidiani e settimanali della città.

«È vero, mister Sweeney, che il suo libro racconta una storia vera?».
«Chi sono i personaggi che si nascondono dietro gli pseudonimi del suo libro?».
«Ci conferma che il governo di Londra ha cercato di impedirne la pubblicazione?».
«Mister Sweeney…!».

Disperato, lo scrittore si rivolse verso la donna in cerca d’aiuto.

«Basta così, ragazzi!» fece la virago «avete avuto le vostre foto. Alle domande il signor Sweeney risponderà nella conferenza stampa che abbiamo allestito per domani. Adesso è stanco è ha bisogno di riposare, il viaggio è stato lungo e faticoso».

Patrick Sweeney la ringraziò con uno sguardo e si lasciò trascinare per un braccio verso una limousine che li attendeva all’uscita.

«Così lei è Miss Delaney, la mia agente di Chicago» disse, una volta che si fu accomodato e l’auto si era silenziosamente messa in moto.
«Sì, ma dica pure americana, visto che abbiamo l’esclusiva per tutti gli USA».
«Grazie per avermi salvato da quelle iene!».
«Di niente» ridacchiò lei «anche perché ero stata io ad invitarli al suo arrivo…».
«Come sarebbe a dire?».
«Il grande scrittore europeo che arriva negli USA… Che notizia sarebbe stata senza un comitato di ricevimento?».
«Ne avrei fatto volentieri a meno!» sospirò lui.
«È lo show business, mio caro. Mi stupisco che lei non lo sappia, visto che ha passato degli anni qui…» disse, lasciando sospesa la frase.

Lui non abboccò.

«Forse una volta era diverso… oppure è la prospettiva che è cambiata» rispose, strizzandole l’occhio.
«Certo, certo» fece lei abbandonando il tono confidenziale «andiamo subito al suo albergo?».
Sweeney esitò un istante.
«Non potremmo prima fare un giro per la città? Mi servirebbe a rilassarmi».
«Come preferisce. Indichi lei la strada all’autista, se ha un’idea di dove andare».

Le vie scorrevano lente attraverso il finestrino della limousine. Patrick guardava le strade che aveva percorso tanti anni prima, riconoscendo ben poco, nelle nuove costruzioni, della Chicago che lui ricordava. Tutta la città sembrava più ricca, ripulita, più moderna, se avesse voluto usare un termine che odiava. La Delaney sembrò accorgersi di questo suo smarrimento, perché gli batté la mano sul ginocchio con aria amichevole.

«È piuttosto cambiata, vero?» disse.
Improvvisamente riscosso dal suo fantasticare, Sweeney si voltò verso di lei.
«Scusi?».
«La città. Chicago, volevo dire. È diversa da come la ricorda?».
«Normalmente diversa. Immagino che ogni città che rivediamo dopo dieci anni di assenza dia questa sensazione».
«Ma… le strade… il blues… Non sono i luoghi che lei ha descritto con tanta passione?».
Patrick Sweeney tirò un lungo respiro:
«Il mio è un romanzo, non un resoconto, alcune cose sono state inventate, altre trasposte, i nomi sostituiti per ovvie ragioni. C’è stato un sindaco di nome Johnson o un capitano di polizia che si chiamava Malone?».

La donna fece rapidamente retromarcia.

«Bé, certo, i nomi sono stati cambiati, ma io credevo… Comunque il suo libro è bellissimo e avrà da noi lo stesso successo che ha avuto in Europa».
«Speriamo» chiosò lui acido.

Proprio in quel momento la macchina mise le sue grosse ruote davanti ad un locale che lui riconobbe immediatamente, nonostante fosse stato evidentemente rimodernato.
Sweeney vi soffermò lo sguardo per alcuni istanti, mentre la vettura aspettava il verde del semaforo per ripartire. Una grande scritta sormontava tutta la facciata, con il nome  “Blues Serenade” scritto in lettere rutilanti e davanti all’ingresso un cartellone apposto per invogliare gli spettatori gridava «The best blues & jazz music today».

Il “Blues Serenade” ripulito dagli eccessi dello stile-gangster di Lo Cascio, spiccava per la sua aria retrò tra le alte costruzioni, in acciaio e vetro, della nuova Chicago.
A quella vista Patrick sentì un nodo alla gola. Gli venne alla mente l’immagine di un pigmeo che sfida i giganti. Ma poi leggendo sulla locandina il nome di Muddy Waters rifletté che il  vero gigante era il “Blues Serenade”.

 

Miss Delaney non si rese conto di tutto questo, che si era svolto in una frazione di secondo, e quando la macchina ripartì si volse ancora verso lo scrittore.

«Vuole continuare il giro o posso farla accompagnare al suo albergo?» chiese, ostentando una punta di noia.
«Torniamo pure» rispose Sweeney, simulando uno sbadiglio «comincio ad essere stanco».
L’agente si chinò verso l’autista: «Al Drake Hotel, per piacere» sussurrò.

L’autista fece cenno di aver capito e alla prima occasione svoltò verso destra, sulla strada del prestigioso Hotel dove l’indomani era prevista la conferenza stampa che avrebbe lanciato Chicago Blues negli States.

– § – § -§

La sala del Drake Hotel dove si sarebbe svolta la conferenza stampa di Patrick Sweeney, autore del best seller “Chicago Blues”,  era gremita all’inverosimile, tanto da far rimpiangere a Miss Delaney di non aver prenotato quella più spaziosa dell’ Hilton, ma un successo così grande di pubblico nessuno avrebbe potuto prevederlo. Hetta Delaney aveva ricevuto sollecitazioni per inviti anche da parte di politici dell’area progressista, che in vista delle elezioni ormai prossime intendevano fare della questione immigrazione il loro cavallo di battaglia e di Patrick Sweeney la loro icona. S’erano anche fatti promotori per fargli avere la cittadinanza, perché più volte lo scrittore aveva affermato di considerarsi americano e ribadito il suo amore per quella nazione che considerava a tutti gli effetti la propria patria. Questo suo innamoramento, così impudicamente sviscerato, lo aveva reso impopolare in Irlanda, la terra che gli aveva dato i natali. Ma “Routledge”, la casa editrice inglese che aveva pubblicato “Chicago Blues”, non s’era fatta intimidire da queste controversie, anzi, proprio su di esse aveva puntato per sfondare oltre oceano. E aveva fatto bingo: l’America tutta s’era innamorata di Patrick Sweeney.

Quando Sweeney aveva preso la parola nella sala il chiacchiericcio s’era spento per lasciare spazio ad un silenzio pieno di attesa. Quell’uomo alto, rugoso, che dimostrava più dei suoi anni,visibilmente emozionato (due volte gli avevano dovuto sistemare il microfono) ma che quando aveva iniziato a raccontare della sua epopea americana aveva ritrovato la sicurezza nella voce e nei modi.
Era Paddy O’Reilly che materializzandosi dalle pagine del libro portava la sua testimonianza diretta, e inconfutabile, sulla veridicità della trama.
Protagonisti. Luoghi. E sentimenti.
Ma era Patrick Sweeney che s’apprestava ad affrontare col suo ritorno a Chicago l’amarezza dei vivi e il silenzio dei morti.

“ Sono tornato per  scrivere l’ultimo capitolo”

PRIMO GIORNALISTA: Nessuna autorità del Regno Unito vi ha chiesto chiarimenti riguardo i vostri contatti con l’IRA in America ?
SWEENEY (sorridendo): Sono uno scrittore e racconto storie. Voi siete un giornalista e raccontate fatti. Di sicuro a voi lo avrebbero chiesto.

La risposta aveva raccolto i consensi del pubblico che aveva riso e applaudito.

SECONDO GIORNALISTA: Mister Sweeney, non credete di aver minato in parte la credibilità della storia, romanzandola in maniera eccessiva? Una tattica per sfuggire alle responsabilità circa le vostre commistioni in suolo americano con uomini della mafia e frange dell’IRA?
SWEENEY: No, non sento di esser sfuggito alle mie responsabilità, e questo per il semplice motivo che non ne ho alcuna. Il mio è un racconto e non una denuncia. Sbagliato volerci vedere altro.
SECONDO GIORNALISTA: Ma il dubbio che siate stato voi, molto scaltramente, ad indurci a vedere altro, pure permane.
SWEENEY: Dimenticate che sono uno scrittore. E uno scrittore è per sua natura scaltro. –

Di nuovo il pubblico aveva riso e applaudito con convinzione.

TERZO GIORNALISTA: Avete detto che siete tornato per scrivere l’ultimo capitolo. La storia quindi non è ancora conclusa. Il riferimento è a Tina Sanpaoli?
SWEENEY: Il riferimento è a me stesso.
TERZO GIORNALISTA: Non vi siete ancora rivisti? Nel racconto ne eravate molto innamorato, oppure anche quella parte è stata eccessivamente romanzata?
SWEENEY: Quella parte è tutta assolutamente vera.
PRIMO GIORNALISTA: Vera come la morte di Micky. Non ve ne sentite responsabile?
SWEENEY (abbassando il tono della voce, dopo un attimo di esitazione): Sì, me ne sento assolutamente responsabile, anche se quella di Micky è stata una morte casuale e di cui ho avuto notizia quando ero già in Irlanda. In tutti questi anni non c’è stato un solo giorno in cui non abbia pensato a lui.
TERZO GIORNALISTA: Ora che avrete la cittadinanza americana siete intenzionato a rimanere?
SWEENEY: Questa è la mia terra. Ero ancora così piccolo quando vi sono giunto da non avere memoria di un’altra culla e di un’altra casa. Di un altro cielo. Qui sono vissuto. Qui sono sepolti i miei morti. Qui ci sono ancora tutti i miei affetti. E le mie speranze. Sono grato all’Irlanda per avermi accolto e dato asilo. È una nazione meravigliosa, giovane ed inquieta, in continuo fermento, che attraverso l’indipendentismo persegue l’affermazione della propria identità. Della mia, invece, ne ho sempre avuto contezza. –

Una marea di applausi aveva accolto questo finale di conferenza stampa. Poi c’era stato il rito, preordinato da Miss Delaney sulla base di una rigida scala gerarchica, delle strette di mano. E degli autografi.

Autografi d’apporre e frasi convenzionali a cui rispondere: quell’ultima parte era stata la più noiosa della kermesse. Hetta Delaney lo aveva preventivamente avvertito: “È il prezzo del successo, non lamentatevene e siate pazienti”. Ma ora finalmente il pubblico iniziava a sfollare e lui sarebbe stato libero di tornarsene alla solitudine della sua camera. E della sua vita.
Libero di continuare ad ingannare il mondo e se stesso. Se fosse stato onesto avrebbe raccontato in conferenza stampa che la nuova Chicago gli era estranea, che erano stati i ricordi del passato a mantenerlo in vita, a dargli una speranza, ed ora che anche le loro tracce erano state cancellate non c’era più niente che davvero gli appartenesse. Niente a cui far ritorno.

D’improvviso si sentiva stanco. Demotivato.
L’euforia del ritorno era tramutata in malessere.
Tutto ora gli sembrava estraneo. E bugiardo.

…E poi aveva visto Tina, nella sala ormai vuota, che stringeva nervosamente una copia del suo libro tra le mani.
Il cuore aveva preso a battergli forte, mentre lui, incapace di muovere un passo, era rimasto fermo al suo posto, incredulo davanti alla materializzazione del suo desiderio.

Ma quando lei aveva pronunciato il suo nome tutto era diventato improvvisamente vero.
L’attimo dopo erano l’uno nelle braccia dell’altra.

«Perdonami, Tina. Perdonami».
«Perdonami tu, Paddy, per averti voluto colpevole a tutti i costi. Mi ci sono voluti tutti questi anni per accettare la verità sulla morte di Micky. Dieci lunghi anni. E il tuo libro ».
«Lo hai letto?».
«È la storia più bella e più disperata che sia mai stata scritta. Ho pianto, ma di gratitudine, perché finalmente mi sono sentita in pace col mondo. Il tuo romanzo ha rimesso le cose a posto.  Avrei voluto scriverti per dirtelo ma non avevo il tuo indirizzo e padre Murray era morto già da tanto tempo. Lui, di sicuro, avrebbe saputo come rintracciarti».

Paddy non riusciva a smettere di guardarla. Era più bella di come la ricordava. Il tempo l’aveva ammorbidita nelle forme e nei gesti, ma lo sguardo era rimasto quello della ragazzina, fiera e sfrontata, che lui aveva appassionatamente amato a dispetto degli anni e del buon senso.

«Sei così bella, Tina, ed io così vecchio…» aveva detto con la voce rotta dall’emozione, sfiorandole i capelli.
«Eri già vecchio anche dieci anni fa. Così direi che non sei cambiato affatto!» aveva replicato lei ridendo, e poi senza dargli tempo di replicare lo aveva baciato.

Un bacio lungo. Appassionato.  A cui Paddy aveva risposto con l’ardore dell’innamorato.
Le luci nella sala, nel frattempo, andavano spegnendosi.

«Credo che stiano per chiudere. Ti va di fare due passi?  Scusami… magari devi tornare a casa. Magari c’è qualcuno che ti aspetta».

Tina aveva sorriso e prendendolo sottobraccio lo aveva rassicurato: possiamo passeggiare finché ne abbiamo voglia, a casa non c’è nessuno ad aspettarmi.  Nessuno a cui io debba render conto dei miei sentimenti.

Camminavano tenendosi per mano, paghi di quel contatto. Di niente altro necessitavano. Non avrebbero sciupato la perfezione di quel momento con la fretta delle parole e l’impaccio dei gesti.

All’angolo della strada, un negro con la chitarra cantava in falsetto“Sweet Home Chicago”:

“Oh, baby, don’t you want to go
Oh, baby, don’t you want to go
back to the land of California
to mah sweet home Chicago
”.

S’era levato il vento e iniziava a piovere.

Bentornato a casa, Paddy, aveva sussurrato Tina, sfiorandogli la bocca con un bacio.