Déjà Vu
Manfred Wilson non ne poteva più, era sotto pressione da oltre un anno, l’editore non gli dava tregua, aveva fretta di mandare alle stampe il libro che stava scrivendo:
«Manfred, avevi promesso che lo avresti consegnato alla fine di settembre, siamo a metà ottobre e sei ancora in alto mare? Per Natale voglio che tutti lo abbiano acquistato, esattamente come il
precedente, ricordi? Fu un successone! Quindi sbrigati!»
Wilson lo rassicurava dicendogli che era questione di giorni ormai, ma la verità era un’altra: era bloccato. A metà della storia la sua mente si era svuotata, e lui restava immobile a fissare lo schermo del computer senza scrivere nulla.
–Devo andarmene da qui, non riesco a concentrarmi – Lo squillo del telefono lo distolse dai suoi pensieri. Guardò il display, era Gilbert un amico che non vedeva da un po’ di tempo.
«Pronto Gilbert, che piacere sentirti!»
«Ciao Manfred, tutto bene? E’ da un po’ che non ci sentiamo, ho pensato di salutarti, sai, sto partendo, vado in Cina per lavoro, starò via alcuni mesi».
«Beato te, anch’io avrei bisogno di andarmene via per un po’, ma devo finire un libro e l’editore mi sta stressando».
«Davvero? Ho un’idea, perché non vieni a casa mia, lo sai com’è no? Ci sei stato altre volte tempo fa. Qui nessuno ti disturberà, in mezzo al bosco, aria pulita, potrai fare tutto ciò che vorrai, che ne dici?»
«Beh, è un’offerta allettante, davvero, tu quando parti?»
«Domani mattina presto».
«Peccato, non potremo salutarci, accetto la tua offerta Gilbert, ti ringrazio, mi farà bene di sicuro isolarmi da tutto e da tutti per un po’».
«Perfetto! Allora ti saluto amico, ah dimenticavo, c’è un giardiniere che viene una volta alla settimana, si chiama Jeff e una donna, Rose, che due volte alla settimana mette in ordine la casa, se hai bisogno di qualcosa rivolgiti a loro, ok? Le chiavi le troverai sotto il vaso di cemento davanti alla porta d’entrata».
«Ok amico mio, sono felice di averti sentito, grazie ancora. Buon viaggio e buon lavoro».
Manfred era al settimo cielo, l’offerta di Gilbert era arrivata proprio al momento giusto. Mise in valigia poche cose alla rinfusa, quella notte dormì come un ghiro, non gli succedeva da tanto tempo. Al mattino, fresco e riposato, partì. Arrivò al paese all’ora di pranzo, si fermò al fast food una mezz’ora quindi risalì in macchina e si immise nel lungo viale che usciva dall’abitato, si inoltrava nel bosco e sfociava in un vialetto che conduceva direttamente alla casa dell’amico. Parcheggiò l’auto nel retro, sgranchendosi le gambe andò alla porta d’entrata, aveva quasi dimenticato quanto gli piacesse quella vecchia casa, così solida e accogliente, quando la mamma di Gilbert inondava la cucina di profumo di pane e biscotti, per un momento gli sembrò di risentire quelle fragranze. Ah! Che bei ricordi d’infanzia. Le chiavi erano sotto il vaso di cemento come aveva detto Gilbert. Prima di entrare aspirò con avidità quell’aria pulita, odorosa di terra, di erba, di fiori. Si sentì felice. Mentre apriva la porta qualcuno lo chiamò:
«Buongiorno signor Manfred».
Si girò e vide un uomo un po’ attempato vestito da contadino con un grande cappello nero in testa.
«Buongiorno, immagino che lei sia il giardiniere…Jeff vero?»
«Si signore, proprio così, il signor Gilbert mi ha detto di mettermi a sua disposizione».
«Grazie infinite Jeff, sono appena arrivato, per il momento sono a posto».
Il giardiniere continuò il suo lavoro e Manfred entrò finalmente nell’atrio della casa. Aprì le tende e le finestre, man mano i ricordi affioravano nella sua mente, era un bambino quando anche lui con la sua famiglia abitava da quelle parti e con Gilbert si vedevano molto spesso, finchè il padre di Manfred decise di trasferirsi in città, non ci fu verso di fargli cambiare idea, non spiegò mai il motivo di quella decisione così improvvisa, lui e la madre lo seguirono a malincuore. I due amici si persero di vista, qualche telefonata ogni tanto, qualche rara visita, nient’altro. Fece il giro di tutta la casa, la nostalgia gli fece venire le lacrime agli occhi, aprì la porta dello studio dove il padre di Gilbert restava chiuso per ore a lavorare. Spalancò la finestra, si vedeva tutto il giardino e una parte del bosco. Meraviglioso! Decise che avrebbe lavorato lì anche lui. Sistemò il computer sulla scrivania, collegò la stampante e impilò i fogli che aveva già scritto. Le giornate si erano accorciate, il sole si era già nascosto dietro gli alberi, un frescolino pungente lo fece rabbrividire. Stava per chiudere la finestra quando la vide. Sulla veranda, una bambina stava in piedi, immobile, rivolta verso di lui, lo guardava senza dire nulla. – Sarà la nipotina di Jeff – pensò Manfred – ma cosa fa là fuori al freddo, con quell’abitino leggero! La piccola infatti, indossava un grazioso vestitino rosa di pizzo, le manine unite quasi come in preghiera reggevano una borsetta dello stesso colore. I capelli chiari e riccioluti, fermati da una coroncina di piccole rose bianche, incorniciavano un viso bellissimo. Una cosa lo colpì, lo sguardo della bambina, fisso, penetrante, uno sguardo adulto, mentre poteva avere si e no sette anni. Corse verso la porta finestra che dava sulla veranda, non c’era nessuno, anche Jeff il giardiniere se n’era andato. – Come immaginavo – si disse – sono andati via insieme.
Dopo aver cenato accese il computer deciso a buttar giù un po’ di pagine del suo romanzo. Un rumore attirò la sua attenzione, si alzò e andò nel corridoio, ancora quel rumore, veniva dalla soffitta, così gli sembrava. – Saranno topi – pensò – andiamo bene! Domani darò un’occhiata.
Tornò al suo romanzo ma, improvvisamente non gli interessava più, altre sensazioni lo pervasero, un’altra storia entrò nella sua mente, era lì, viva, chiara come la luce del sole. Fece spazio sulla scrivania e iniziò a scrivere:
Titolo:
DÉJÀ VU capitolo 1
Era arrivato il gran giorno: tutto era pronto per il matrimonio di Wilfred e Gena, gran fermento in casa della sposa, tutte le donne del parentado si davano un gran da fare a sistemarle l’abito, il bouquet, l’acconciatura, grande attenzione anche per la piccola Evelyn, la damigella, bellissima, tutta vestita di rosa, avrebbe dovuto cospargere di petali di fiori la passerella della chiesa al passaggio della sposa.
Lo sposo era già arrivato, accompagnato dalla madre, aveva percorso la passerella ed ora attendeva la sua futura sposa. Era inquieto Wilfred, anzi, angosciato, non era pronto per quel passo, e non era neppure innamorato di Gena, lui amava Rosalind, la seconda moglie di Herbert, padre di Gena, molto più giovane di lui, una donna bella e sensuale, si erano scambiati alcuni sguardi molto eloquenti, Wilfred la desiderava, passava notti insonni pensando a lei. Una sera, mentre si preparava per andare a letto, sentì bussare alla porta, il cuore gli balzò in gola quando aprì e la vide, era lei, Rosalind, lo guardava senza parlare. Non disse nulla neppure lui, non ce n’era bisogno, si gettarono uno nelle braccia dell’altro e diedero sfogo a tutta la passione tenuta a freno per troppo tempo. Sapevano di non avere un futuro insieme, lei non avrebbe mai lasciato il ricchissimo marito e lui non avrebbe mai rinunciato a sposare l’unica erede di quella fortuna. Si incontravano di nascosto, ogni volta che potevano, quando Herbert si assentava per affari o quando si riuniva con i soci nel suo studio. Sapevano di correre un grosso rischio, desiderio e paura mescolati insieme rendevano i loro incontri ancor più eccitanti. Ed ora Wilfred era lì, vicino all’altare, guardava Gena avanzare sul tappeto rosso al braccio del padre, nel suo magnifico abito da sposa, era felice, sorrideva. Davanti a loro Evelyn spargeva petali di rose con grazia infantile, quando arrivò vicino all’altare girò la testa e lo guardò seria dritto negli occhi per qualche secondo. Wilfred si sentì turbato senza capirne il motivo. La cerimonia fu impeccabile, la chiesa era gremita, tutto si svolse alla perfezione.
******
Manfred era stupefatto, le parole sembrava uscissero da sole dalla tastiera, non era mai stato tanto ispirato come in quel momento. – Lo sapevo che mi avrebbe fatto bene andarmene dalla città – pensava con soddisfazione. Ancora quel rumore, come poco prima. Guardò l’orologio, era tardi e aveva sonno, si ripromise di salire in soffitta il mattino dopo, non prima di una abbondante colazione. Dormì tutta la notte come un bambino. Rose, la donna delle pulizie, entrò in casa e trovò Manfred in cucina, un buon odore di uova e pancetta sfrigolante l’accolse:
«Buongiorno Signor Manfred, che profumino! Sono Rose, vengo due volte alla settimana per pulire la casa».
«Buongiorno a lei Rose, Gilbert me ne aveva parlato, vuole favorire?»
«Oh no la ringrazio, ho già fatto colazione, se permette comincerò a riordinare la sua stanza».
«Come vuole Rose, sa, ieri ho conosciuto Jeff il giardiniere».
«Ah sì! Un buon diavolo! E’ molto bravo nel suo lavoro, il giardino è una vera bellezza, soprattutto quel roseto, vede? Ha una passione particolare per le rose bianche».
«Stupende davvero! Mi è dispiaciuto solo che se ne sia andato senza salutare insieme alla nipote».
«La nipote?»
«Sì, una bimba deliziosa, era sulla veranda, sono uscito per parlarle ma non c’era più, né lei né Jeff».
«Non so niente di questa nipote, non so che dire» – rispose Rose in tono asciutto.
«Scusi se glielo chiedo, lei è in servizio qui da molto?»
«Da più di vent’anni, prima venivo tutti i giorni poi…il signorino Gilbert è rimasto solo quindi… Anche Jeff viene più raramente ormai».
«Capisco. Bene, la lascio lavorare in pace, ho intenzione di salire in soffitta, ieri ho sentito dei rumori, vado a controllare che non ci siano dei topi».
Rose si irrigidì ma non disse nulla, annuì col capo e si dedicò al suo lavoro. Manfred prese una torcia elettrica e si diresse verso la scala che portava in soffitta, i gradini scricchiolavano – forse era il legno a produrre quei rumori – pensò. Arrivato in cima alla scala guardò ai lati della porta e subito trovò le chiavi, erano appese a un chiodo. Si sentiva stranamente eccitato e anche un po’ in colpa, gli sembrava di profanare un luogo sacro. I cardini della porta emisero un lungo gemito mentre l’apriva – accidenti, ma da quanto tempo non la aprono – pensò Manfred – proverò ad oliarli. Accese la torcia, fece un po’ di rumore battendo i piedi sul pavimento – se c’è un topo verrà fuori – ma non successe nulla. Cominciò a guardarsi intorno, sedie accatastate, un cavallo a dondolo, l’asse di una altalena, scatole di diverse dimensioni impilate ordinatamente. Dal piccolo lucernario un fascio di luce le illuminò, fu allora che si accorse di quella piccola scatola di cartone appoggiata in cima alle altre più grandi. La curiosità era troppo forte, la prese e l’aprì con delicatezza. Erano fotografie, vecchie fotografie in bianco e nero un po’ ingiallite, mostravano scene di vita familiare, bambini che giocavano, adulti seduti in veranda a bere il the, famiglie riunite sotto l’albero di Natale. Riconobbe Gilbert ritratto con i genitori e, con grande emozione, ne vide una dove lui e il suo amico, già giovanotti, ridevano spensierati rivolti verso l’obiettivo, in una delle rare volte che Manfred era passato a trovarlo. Reggevano una cesta con dentro i pesci pescati nel fiume oltre il bosco. Alcune foto ritraevano il magnifico giardino da diverse angolazioni, in alcune si vedeva un giovane Jeff intento a sistemare le aiuole. L’ultima foto lo lasciò di stucco; non poteva essere! Sembrava proprio la bambina che aveva visto sulla veranda, a dire il vero la fotografia era un po’ sfocata, ma sembrava lei, soprattutto per quello sguardo particolarmente penetrante. L’abitino di pizzo, i capelli lunghi e ricci, nelle mani quella che pareva una borsetta, oppure un piccolo cesto, non si capiva. Sullo sfondo, molto sfocate, alcune persone, una sembrava vestita da sposa, vicino a lei un uomo, probabilmente il padre, sì, sembrava un matrimonio. Riguardò le foto di famiglia, della bambina non c’era traccia, però si accorse di qualcosa che gli era sfuggita prima: nel gruppo sotto l’albero di Natale si vedeva un uomo cingere sorridendo le spalle della moglie molto più giovane di lui. Lei però non sorrideva, i suoi occhi non guardavano l’obiettivo. Manfred seguì il suo sguardo e capì: guardava il bel giovane in posa poco più in là, tenuto al braccio da una ragazza non bella ma elegantissima. L’ispirazione lo colse all’improvviso, rimise le foto nella scatola e uscì dalla soffitta portandola con sé. Chiuse a chiave la porta e tornò nello studio, doveva scrivere subito ciò che aveva in mente.
DÉJÀ VU capitolo 2
Wilfred e Gena erano sposati da pochi mesi, la loro vita matrimoniale proseguiva piuttosto monotona, specialmente per Gena che si aspettava più ardore dal marito sotto le lenzuola, mentre lui non la cercava per diversi giorni, tornava tardi la sera, adducendo scuse alle quali Gena non riusciva più a credere. Suo marito non l’amava più? Ma perché? Lei era pazza di lui! Si ritrovava spesso sola a piangere e a crearsi sensi di colpa inesistenti. In realtà Wilfred di ardore ne aveva eccome, lo conservava tutto per i suoi incontri con Rosalind, che lo ricambiava con altrettanta passione. Si davano appuntamento nel pied-à-terre, appositamente affittato da Wilfred, molto lontano dalla loro abitazione. Ma il destino era in agguato: quel giorno, Herbert, il marito di Rosalind, era partito presto, sarebbe stato via due giorni per affari. Quindi i due amanti si attardarono tranquillamente nel loro nido.
«Amore, cosa dirai a tua moglie per questo ritardo? Non vorrei che si insospettisse».
«Non ti preoccupare tesoro, Gena crede a tutto ciò che le racconto».
Uscirono dall’appartamento che era quasi buio, Wilfred fermò un taxi per Rosalind, era più prudente tornare separatamente. Erano vicini, fermi sul marciapiedi, il taxi stava accostando quando, nel senso opposto, passava il furgoncino verde del giardiniere, dall’abitacolo due occhi penetranti lo guardarono per pochi istanti, ma furono sufficienti per spaventare a morte Wilfred: era Evelyn e li aveva visti insieme! – Maledizione – imprecò fra sé – ora parlerà, dirà tutto, non posso permetterlo, se Herbert venisse a sapere che sua moglie è la mia amante saremmo rovinati tutti e due. Guardò Rosalind, non si era accorta di nulla, stava salendo tranquillamente sul taxi e agitava la mano per salutarlo. Fu in quel momento che nella mente di Wilfred maturò la spaventosa decisione.
*****
Manfred rilesse la pagina – per ora mi fermo qui – pensò soddisfatto – domani guarderò ancora le foto per trarre altre ispirazioni. Sono certo che qualcosa mi sia sfuggito.
Il mattino dopo, fresco e riposato, andò in cucina, ormai aveva preso la buona abitudine di fare un’abbondante colazione prima di mettersi al lavoro, quando stava in città, a malapena beveva un caffè. Guardò fuori dalla finestra, Jeff era già al lavoro nel roseto. Manfred uscì dalla cucina, accese una sigaretta e gli andò incontro:
«Salve Jeff, tutto bene?»
«Sì signor Manfred, sto tagliando alcuni rami secchi, ormai le rose stanno sfiorendo, fra poco arriverà l’inverno, rifioriranno in primavera più belle che mai»
«Certo, le sue adorate rose bianche, mi ha detto Rose che le predilige».
«Già!» rispose asciutto Jeff.
Manfred pensò che lo infastidisse essere disturbato sul lavoro perciò venne subito al punto:
«Mi scusi Jeff, la bambina che stava sulla veranda l’altro giorno, è sua nipote vero?»
»Una bambina? Quale bambina?» Jeff lo stava guardando fisso negli occhi, sembrava preoccupato.
«Ma sì, era là, in piedi sulla veranda, mi guardava, quando sono uscito per parlarle non c’era più.»
«Non ho nessuna bambina» rispose Jeff, malcelando il malumore.
«Aspetti un momento per favore» – disse Manfred correndo in casa. Andò nello studio, cercò tra le fotografie finchè trovò quella giusta. Tornò da Jeff:
«Ecco, guardi! Somigliava a questa bambina nella foto, vede?»
Jeff alzò la testa di scatto facendolo spaventare:
«Dove ha preso questa fotografia?»
«In soffitta, ieri.»
«E perché è andato in soffitta?»
«Ho sentito dei rumori, credevo ci fossero i topi, poi ho visto una scatola e …»
«Senta Manfred! Questa non può essere la bambina che ha visto in veranda, perchè è morta più di vent’anni fa! A meno che lei non creda ai fantasmi!»
Manfred restò in silenzio, non riusciva a capacitarsi, eppure la bambina era là.
«No Jeff, naturalmente no, non ci credo, però le assicuro che la somiglianza è impressionante. Cosa è successo alla bambina nella foto?»
Il giardiniere distolse lo sguardo, una smorfia di dolore contrasse i lineamenti del suo viso:
«Qualcuno la uccise! Non trovarono mai il colpevole».
«Oh mio Dio è terribile! Povera piccola».
«Già! Era la figlia di mia sorella, una bimba bellissima, intelligente, due grandi occhi scuri e penetranti. Tutti dicevano che sembrava ti guardasse fin dentro l’anima. Ah! La mia piccola Evelyn! Se avessero scoperto il colpevole lo avrei ucciso con le mie mani, glielo assicuro».
«EVELYN?»
«Sì, così si chiamava».
Manfred restò sbalordito, era lo stesso nome che aveva scelto per il suo romanzo. – Accidenti che coincidenza – pensò – dovrò cambiare il nome alla bambina. Salutò frettolosamente Jeff, che aveva ripreso il suo lavoro, e rientrò in casa. Corse nello studio e rilesse ciò che aveva scritto. Da come aveva impostato il racconto era chiaro che l’assassino fosse Wilfred, poiché Evelyn l’aveva visto con l’amante. Sì, poteva andare bene, doveva solo cambiare il nome, già, ma quale altro nome scegliere? Mary? Sofia? Veronique? Nessun nome lo convinceva, decise di pensarci più avanti. Improvvisamente si bloccò, si sentiva osservato, come se qualcuno fosse nella stessa stanza con lui. Un’inquietudine opprimente si impossessò di lui. Guardandosi intorno gridò:
«C’è qualcuno?»
Silenzio.
– Che idiota che sono – pensò – è ovvio che non c’è nessuno. Non sono neanche più sicuro di aver visto la bambina l’altro giorno. Ho l’impressione che in questa casa ci sia troppa calma, troppo silenzio, mi sto facendo suggestionare. Andò in bagno e si abbassò sul lavandino per rinfrescarsi il viso, rialzò la testa e prese l’asciugamano. Un grido di spavento gli uscì dalla gola, fece un balzo all’indietro; sullo specchio sopra il lavandino una scritta spiccava in lettere rosso sangue:
Uscì di corsa dal bagno pieno di spavento e in stato confusionale. Quasi si scontrò con Rose che era appena entrata in casa per fare pulizia.
«Rose! Grazie al cielo è arrivata!»
«Signor Manfred, ha l’aria stravolta, si sente male?»
«No no, è che qui succedono cose strane. Vada in bagno a vedere e capirà».
«In bagno?»
«Sì sì, vada!»
«D’accordo, vado – disse Rose un po’ preoccupata. Con cautela si affacciò alla porta del bagno, non vide nulla di strano. Entrò guardandosi intorno, era tutto a posto.
«Cosa dovrei vedere mi scusi?
Manfred, che era rimasto a debita distanza, le gridò:
«Sopra il lavandino, sullo specchio!»
«Ma non vedo niente, insomma signor Manfred, io non vedo niente di strano, se è uno scherzo non è divertente!»
Manfred si avvicinò piano alla porta aperta del bagno e guardò lo specchio: la scritta era sparita!
«Ma … non capisco … – mormorò, più confuso che mai – le assicuro che prima c’era scritto un nome sullo specchio».
«Un nome? Quale nome?»
«Evelyn! Era rosso come il sangue».
Rose lo guardò strabiliata:
«Evelyn? Come la piccola …»
«Sì Rose, proprio lei. Jeff mi ha raccontato che fu uccisa molti anni fa, io non credo ai fantasmi, ma le assicuro che c’era scritto quel nome poco fa».
«Oh signor Manfred, si è lasciato suggestionare dal racconto di Jeff. Su, andiamo in cucina, le preparo una bella cioccolata calda».
Lui la seguì come un automa. Mezz’ora dopo Rose si dedicò alle sue faccende e Manfred tornò nello studio. Aprì la scatola con le fotografie, le avrebbe riguardate con più attenzione, aveva bisogno di ispirazioni per continuare il romanzo. Al diavolo i fantasmi, non si sarebbe più fatto impressionare da niente e da nessuno, anzi, decise di non cambiare affatto il nome della bambina: Evelyn era e Evelyn sarebbe rimasto!
Prese una foto che ritraeva la famiglia del suo amico Gilbert seduta in giardino serenamente a bere il the. Niente di interessante, stava per riporla quando si accorse di un particolare. In un angolo, quasi fuori inquadratura, si vedeva una bambina che si allontanava verso il bosco. Prese la lente d’ingrandimento e andò vicino alla finestra per avere più luce. L’immagine ingrandita mostrava la piccola col braccio teso verso qualcuno, sì, qualcuno che la teneva per mano e andava con lei nel bosco! Anche se la si vedeva da dietro, quella bambina era lei, Evelyn, ne era certo. All’improvviso ebbe l’ispirazione: ora sapeva come continuare il suo romanzo! Stava per staccarsi dalla finestra quando vide Rose in giardino che parlava fitto fitto con Jeff. Gli starà raccontando della figuraccia che ho fatto prima – pensò Manfred – al diavolo anche loro! Accese il computer:
DÉJÀ VU capitolo 3
Il tempo passava, Wilfred viveva nel terrore che Evelyn parlasse, il fatto che non avesse detto ancora niente non lo tranquillizzava, poteva succedere in qualsiasi momento. Quando la vedeva arrivare insieme al giardiniere, restava col fiato sospeso, fino a quando si rendeva conto che tutto era tranquillo. C’era solo una cosa che lo irritava, anzi, lo inquietava: lo sguardo di Evelyn! Lei stava sempre vicino allo zio, ogni tanto però lo guardava, con quei suoi occhi così scuri e profondi che gli mettevano i brividi. Un giorno, mentre tutta la famiglia se ne stava beatamente in giardino a mangiare la buona torta di mele della cuoca, e Gena scattava fotografie, successe qualcosa di terribile. Due ragazzini del paese arrivarono correndo e ansimando in giardino, sembrava avessero visto un mostro, tanto erano spaventati. Uno di loro si mise a gridare:
«Presto correte, Evelyn, nel bosco… morta…»
*******
Manfred s’interruppe. Evelyn morta, già, ma in che modo? Strangolata? Oppure le hanno sparato? Colpita con un sasso? Non riusciva a decidersi. Prese ancora la foto della bambina e la guardò a lungo, cercando un’ispirazione. Annegata? Un brivido gli percorse la schiena, non riusciva a staccare lo sguardo dagli occhi di Evelyn, così scuri, così profondi, sembrava volessero entrargli nell’anima. Per un istante gli sembrò che quegli occhi prendessero vita, che lo stessero davvero guardando. – Dimmi cosa ti è successo – mormorò Manfred. Rimise la foto nella scatola, si massaggiò le tempie e riprese a scrivere. L’ispirazione era arrivata.
Tutti si alzarono tempestando di domande i ragazzini:
«Morta? Ma cosa dite, dove, come…»
«Si, sì, nel bosco, venite!»
Percorsero il lungo tratto correndo tutti insieme, finchè la videro. Era riversa a terra a faccia in su, una chiazza di sangue sotto la nuca, i bellissimi occhi scuri chiusi per sempre. Restarono tutti immobili, come inebetiti, non volevano credere a ciò che vedevano. Herbert, il papà di Gena, si riprese per primo dallo shock:
«Presto, qualcuno vada a chiamare un dottore e la polizia, presto, presto! Wilfred! Vai tu per favore…Wilfred!»
Si accorse solo in quel momento che suo genero non c’era:
«Ma dove si è cacciato?»
«Andiamo noi signore, dissero i due ragazzini, faremo presto». Ripresero a correre velocemente verso il paese, lasciando il gruppetto di persone sgomente e atterrite di fronte al corpicino della piccola Evelyn. Nel frattempo, il giardiniere arrivò sul posto trafelato, quando vide la sua nipotina ridotta in quello stato, lanciò un grido di disperazione e cadde in ginocchio con la testa fra le mani.
Il medico, dopo l’autopsia, dichiarò che la bimba probabilmente era scivolata e aveva picchiato la testa contro un sasso, morendo all’istante, non c’erano segni di violenza o di percosse. Un incidente quindi, il caso fu chiuso.
Ma dov’era Wilfred?
Si rese conto in quel momento che nessuno gli aveva spiegato come fu uccisa Evelyn, lui aveva deciso che il colpevole doveva esse Wilfred, il marito traditore, ma non riusciva a mettere insieme i fatti, la morte accidentale non poteva funzionare, toglieva suspence al racconto. Sentì un brivido nella schiena all’improvviso, un soffio gelido, si voltò rapidamente, non c’era nessuno, la porta era chiusa eppure…
«Chi c’è? – gridò cercando di farsi coraggio – c’è qualcuno?» – aprì la porta di scatto, non c’era nessuno. Guardò dalla finestra, Jeff stava potando le rose, andò verso di lui con passo deciso.
«Jeff, devo chiederle una cosa importante: come fu uccisa Evelyn?»
Il giardiniere lo guardò stupito:
«Perché me lo chiede?»
«E’ una storia che mi ossessiona, continuo a pensare a quella povera bambina innocente».
«Capisco. Il dottore disse che si trattò di un incidente: la bimba scivolando battè la testa ma…io so che non è così. In tutti questi anni ho riflettuto molto e ho capito cosa è successo».
Manfred si sentì mancare: scivolata battendo la testa…proprio come aveva scritto lui nel suo romanzo. Ma cosa stava succedendo! Nella sua testa confusa una certezza si fece strada: era Evelyn che gli suggeriva cosa scrivere, la povera bimba voleva che si sapesse la verità, voleva trovare pace.
«Jeff, lo dica anche a me, cosa pensa sia successo? Non ha rivelato i suoi sospetti alla polizia?»
«No, prima devo esserne certo, sto cercando la prova decisiva, appena la troverò le racconterò quello che penso».
Deluso, Manfred tornò nello studio, si mise davanti al pc e per poco non svenne: i fogli che aveva appena stampato e impilato con precisione di fianco alla stampante erano stati mossi, qualcuno approfittava della sua assenza per leggere la storia, ma chi poteva essere, Rose? Jeff? Oppure…”lei”! Un sudore freddo gli imperlò la fronte, sì era lei che controllava i suoi scritti, era lei, Evelyn, che gli suggeriva cosa scrivere, ormai ne era certo.
«EVELYN! – chiamò a gran voce – dove sei piccola?»
Gli rispose un silenzio totale. Affranto si girò verso la scrivania: vicino alla tastiera del PC c’era una fotografia, strano davvero, era certo di averla riposta nella scatola. La prese e la riconobbe subito, era la foto dove Evelyn si dirigeva verso il bosco tenuta per mano da qualcuno. Già, ma da chi?
Sentì la voce di Rose nel corridoio, la chiamò:
«Rose, ha forse toccato i fogli vicino alla stampante facendo pulizia?»
«No signor Manfred, non tocco mai niente sulla sua scrivania».
«Certo, mi scusi. Rose, devo parlare con qualcuno altrimenti impazzisco.»
«Cosa c’è che non va signore?»
«Mi deve giurare di non dirlo a nessuno». Rose corrugò la fronte preoccupata:
«Ma certo, lo giuro, cosa c’è di tanto grave?»
Manfred le si avvicinò fino a sfiorarla dicendo sottovoce:
«Sono in contatto con Evelyn, mi lascia indizi affinché io scopra chi l’ha uccisa».
«Cosa? Evelyn…la piccola Evelyn? Ma cosa dice, non è possibile! E’ morta da tanti anni.»
«Le dico di sì! E’ lei che ha spostato i fogli sulla scrivania, poi ha messo qui questa foto che io avevo lasciato dentro la scatola, non può essere stato nessun altro».
«Signor Manfred, è sicuro di star bene? E’ diventato pallido, vado a chiamare Jeff…»
«No! Non chiami nessuno, sto bene. Dimentichi ciò che le ho detto, vada pure».
Rose tornò alle sue faccende, aveva un’aria molto turbata.
Manfred seduto alla scrivania prese la lente d’ingrandimento e osservò più attentamente la foto, se Evelyn gliel’aveva messa lì doveva esserci un indizio che la volta precedente non aveva notato. Un momento! Sistemò la lente sul particolare delle mani, guardò con più attenzione quella dell’accompagnatore di Evelyn, si vedeva solo il polso ma fu sufficiente, quella piccola macchia sulla pelle, inconfondibile. Fu come se un macigno si abbattesse su di lui, si coprì il volto con le mani emettendo un grido di raccapriccio. Ora sapeva chi aveva ucciso Evelyn!
In giardino, Rose e Jeff lo sentivano gridare:
«Quel ragazzo sta impazzendo, cosa possiamo fare?» disse Rose.
«Aspettiamo gli ordini».
Manfred, spossato dal pianto, era accasciato sul divanetto con la testa fra le mani. Il rumore della porta che veniva aperta lo scosse, si voltò lentamente, ciò che vide lo fece balzare in piedi.
«GILBERT! »
«Ciao Manfred». Il volto dell’amico era serio, stava fermo nel vano della porta guardandolo fisso negli occhi.
«Gilbert ma…che ci fai qui, non eri via per lavoro?»
Gilbert entrò nello studio e si avvicinò alla scrivania ignorando la domanda:
«Allora Manfred – disse – so che stai scrivendo un romanzo molto avvincente sulla morte di Evelyn».
«Sì – rispose – mi manca l’ultimo capitolo».
«Davvero?»
«Sì, ora so la verità».
«Ma…avrai il coraggio di scriverla?»
«Sì, voglio dare pace alla povera bimba».
«Come hai fatto a scoprire la verità?» – chiese Gilbert
«La fotografia, quella macchia sul polso».
«Ah, quindi ho fatto bene a fartela trovare sulla scrivania».
Manfred sgranò gli occhi:
«L’hai messa tu?»
«Ma certo! Di sicuro non è stato un fantasma!» – ora Gilbert aveva un ghigno sul volto, si stava prendendo gioco di lui?»
In quel momento entrarono nello studio Jeff e Rose che si affiancarono a Gilbert.
«Ma cos’è questa? Una congiura?» – gridò Manfred spaventato dai loro sguardi severi.
«Povero Manfred! – esclamò Gilbert con tono di commiserazione – ma davvero hai pensato che la piccola Evelyn, che Dio l’abbia in gloria, ti avesse lasciato segnali in giro per la casa? Andiamo! Ti facevo più intelligente!»
«Vorresti dire che sei stato tu? Anzi, siete stati voi?»
«Ma certo! Volevamo che scoprissi tutto!»
«Ma tu eri partito per…»
«No, sono sempre stato qui. Ho fatto rumore in soffitta, perché tu vi salissi e trovassi le fotografie. Jeff ti ha mostrato per qualche secondo una sagoma di Evelyn sulla veranda, che ti ha molto disorientato. Rose ha scritto il nome della bambina sullo specchio del bagno, ovviamente lo ha ripulito quando tu la chiamasti tutto spaventato. Io personalmente sono venuto giornalmente a controllare le pagine del tuo romanzo, per capire se ti stessi avvicinando alla verità. Ho letto la ricostruzione dei fatti incresciosi che accaddero molti anni fa: la giovane moglie di mio padre, il suo amante ecc. ecc. Tutto giusto. Quello che non sai è che mio padre scoprì la tresca, scacciò i due traditori, vide mia sorella deperire di giorno in giorno fino ad ammalarsi e morire. Lui la seguì poco tempo dopo, il suo cuore non resse al dolore. Tu queste cose non potevi saperle perché la tua famiglia si era già trasferita altrove. Ma a me interessava l’ultima parte del tuo romanzo, volevo vedere se avresti ricordato l’ultima verità! Oggi è successo a quanto pare, hai avuto un déjà vu guardando bene questa foto che, opportunamente, ho lasciato in bella vista. Allora? Che dici?»
Manfred rimase a bocca aperta, inebetito. Stava realizzando poco a poco di essere caduto in una trappola gigantesca, tutti sapevano tranne lui, l’avevano trattato come un idiota! Si appiattì contro il muro tremando come una foglia, balbettando:
«Io…non è colpa mia…non volevo…è stata una disgrazia! …Non volevo…Evelyn… perdonami!»
I singhiozzi gli squassavano il petto, aveva ricordato tutto scoprendo quella macchia sul polso nella foto, quella piccola voglia violacea, eccola, è ancora lì ben visibile, quel polso era il suo.
Gilbert, Jeff e Rose, si avvicinarono a Manfred che si era rannicchiato sul pavimento, la testa appoggiata alle ginocchia, stremato dal pianto e dal rimorso. Ripeteva come una litania le stesse parole:
«Evelyn…perdonami…perdonami».
«Sappiamo che non l’hai fatto apposta Manfred, in fondo eri anche tu poco più che un bambino, hai avuto paura, tutto qui. Hai rimosso l’accaduto dalla tua memoria.»
QUEL GIORNO NEL BOSCO
Con la voce rotta dal pianto, Manfred iniziò a raccontare:
«Era una bella giornata primaverile, le nostre famiglie erano in giardino a bere il the, c’era anche Evelyn che giocava con noi Gilbert, ricordo benissimo che tu a un certo punto sei andato a sederti per mangiare il gelato, non avevi più voglia di giocare. Io dissi a Evelyn:
«Andiamo a fare un giro nel bosco?»
«Chiedi a tua mamma, lo sai che non vuole».
«Ma no dai, è qui vicino, tanto torniamo presto…allora?»
«Va bene, andiamo».
Nessuno si accorse della nostra assenza, erano tutti intenti a chiacchierare.
Presi Evelyn per mano e ci allontanammo indisturbati. Giunti nel bosco cominciammo a correre tra gli alberi finché arrivammo in un punto dove il terreno era franato tempo prima per le forti piogge, creando un notevole dislivello. Io sfidai Evelyn:
« Facciamo un salto?»
«No, ho paura».
«Fifona, guarda».
Saltai con successo, e tutto orgoglioso tornai su arrampicandomi ai rami sporgenti».
Evelyn esitava, io ridendo la prendevo in giro. Non so cosa mi è preso, è stato un attimo di…»
Manfred si interruppe, era il momento della verità, il momento che aveva rimosso dalla sua mente. Grosse lacrime gli solcavano le guance:
«Evelyn stava sull’orlo della frana cercando il coraggio di saltare. Poiché non si decideva, le diedi una spinta…con un grido lei cadde di sotto…non si muoveva più, io la chiamavo, credevo che scherzasse, saltai giù per aiutarla a risalire ma, vidi tutto quel sangue…sotto la testa…mi prese il panico, mi arrampicai velocemente e tornai a casa di corsa, passando dal retro, non mi vide nessuno. Ero terrorizzato, se avessi raccontato l’accaduto mio padre mi avrebbe punito severamente, tutti si sarebbero arrabbiati con me, nella mia mente infantile si apriva uno scenario drammatico. Decisi di non dire niente…oh! Mio Dio, come ho potuto fare una cosa simile!»
Aveva ripreso a singhiozzare, il ricordo era troppo doloroso, dover ammettere di essere stato un incosciente e un vigliacco, lasciando la sua piccola amica nel bosco e, come se non bastasse, partecipando alle ricerche quando si accorsero che non c’era, era per lui un peso insopportabile.
Jeff il giardiniere a questo punto intervenne:
«L’avevo intuito che eri stato tu, ma non avevo le prove. Poco tempo fa ho visto casualmente quella fotografia, mi sono accorto subito della macchia sul polso, tempo prima ci avevamo scherzato su, dicendo che sembrava una ciliegia».
«Già – proseguì Gilbert – per tanti anni si è creduto alla disgrazia, nel frattempo la tua famiglia improvvisamente decise di cambiare città, così la cosa è cadde nel dimenticatoio».
«Avevo raccontato tutto ai miei genitori» – ammise Manfred.
«Ah, ecco perché ti hanno portato via da qui, ora capisco, hanno avuto paura delle conseguenze e ti hanno aiutato a dimenticare. Quando Jeff mi ha fatto vedere quella foto, abbiamo deciso, insieme a Rose, di organizzare questa messinscena, perché è giusto che tu ricordi, che chieda perdono a Dio, a Evelyn, a Jeff e alla sua famiglia che ha sofferto terribilmente. Così ti ho telefonato dicendoti che andavo in Cina per lavoro e ti ho invitato a stare un po’ a casa mia. Ti abbiamo seguito passo passo, abbiamo fatto in modo che si risvegliasse la tua memoria, facendoti credere che Evelyn ti stesse contattando. Ci siamo riusciti, per il tuo bene è meglio così».
Manfred si rivolse a Jeff:
«Cosa posso dire Jeff, ti chiedo perdono, sono stato un vigliacco ma, ero solo un bambino, avevo paura».
«Perdono te Manfred, proprio per questo, ma non perdono i tuoi genitori che sapevano e sono fuggiti».
«Ormai sono morti Jeff, qualcuno più in alto di noi li avrà giudicati» – disse Rose.
«Vi prego di lasciarmi solo adesso, sono esausto».
«D’accordo Manfred, è stata una dura giornata, lo capiamo. A più tardi».
Gilbert, Jeff e Rose se ne andarono.
Manfred cercò nella scatola la fotografia dove Evelyn era vestita da damigella, si sedette sulla poltrona, guardò con tenerezza la figuretta esile, bellissima, la strinse al petto e mormorò:
«Evelyn,perdonami»…
EPILOGO
La bambina si materializzò davanti a lui, gli sorrideva e gli tendeva la manina per andare ancora nel bosco. Lui la seguì felice. Arrivati al punto franato, Evelyn si fermò, non rideva più, lo fissò negli occhi per un istante, poi gli diede una forte spinta e lo fece precipitare di sotto. Manfred restò immobile sul terreno, il sangue usciva copioso dalla nuca, guardava terrorizzato la bambina che, indifferente, gli indicava col braccino teso un punto nel cielo. Manfred guardò in quella direzione, un’immagine apparve in quel lembo azzurro, come in uno schermo: Evelyn a terra, ferita, piangeva e chiamava aiuto, ma non c’era nessuno, perché lui era fuggito, l’aveva creduta morta. Ora capiva quanto era stato vigliacco e crudele, stava per pagare con la vita il suo peccato.
«E’ questo che vuoi? – gridò Manfred – la vendetta? Allora vattene e lasciami qui a morire».
Evelyn, leggera come una piuma, scivolò fino a lui, lo aiutò a rialzarsi e a risalire il terreno. Poi gli sorrise e scomparve.
Manfred si svegliò di soprassalto, si guardò intorno, era solo, quel sogno l’aveva turbato ma anche alleggerito. Evelyn l’aveva punito e poi perdonato, baciò la fotografia un’ultima volta, la ripose nella scatola e la riportò in soffitta.