Era una ragazzina, di quelle che indossano anfibi in piena estate. La pelle color miele, dorata dal sole, gote incantevoli ancora bambine.
Marco notò subito quel suo vizio di mordicchiarsi il labbro inferiore, che era sempre un po’ arrossato. Come lui era schiva e timida. E davvero bella, di quelle persone che non lo sanno però, o almeno non ne sono certe… che sono sempre alla ricerca del pezzo mancante per sentirsi accettate dal mondo.
La conobbe e capii subito guardando i suoi occhi tristi che la connessione sarebbe stata inevitabile: in lei avrebbe sempre ricercato un qualche destino condiviso, complice il medesimo luogo di nascita, che tanto spesso si traduceva anche in quello di morte. Una vita ristretta in finale, dove gli spiriti più curiosi finivano per inventare le loro personali evasioni, senza bisogno di abbandonare quelle radici che legavano a doppio nodo.
Evasioni solitarie, nel caso di Marco, divenute nel tempo qualcosa di talmente consistente, e vitale, da vedere ormai quasi dissolto il limite. Realtà e immaginazione convivevano e si alternavano il giorno come la notte, dove i richiami e le ingerenze trai due universi diventava sempre più frequente, e autentico.

Poi incontrò lei. E fu sollievo e urgenza. Perché a lei sentiva che avrebbe potuto spalancare le porte verso i suoi mille mondi celati. Certo che non avrebbe giudicato, che li avrebbe solo vissuti, sospendendo ogni credo per contemplarne la bellezza. Senza porsi domande inutili.
Lei che ad ogni nuovo incontro non capiva, accidenti, o forse, forse fingeva di non capire che quel destino li stava chiamando, entrambi.

Negli anni divennero in un certo senso amici, o almeno abbastanza amici. Non che si frequentassero spesso, perché lei, in quel piccolo paese ma non troppo, restava sempre defilata. Poche uscite, pochi amici… letture, camminate… lei soprattutto sembrava, sì, sembrava pensare molto. Ogni tanto, come è normale in confini ristretti per dei coetanei, capitava loro di incontrarsi per caso.
Ed ogni volta lei era più bella, ed ogni volta parlarle era più piacevole, e distensivo… ma l’urgenza cresceva.

Era meraviglioso perdersi in quegli occhi grandi, in quel sorriso imbarazzato, deporre la maschera per qualche istante al suo cospetto… ascoltarla quando finalmente un po’ si scioglieva. Spesso era tutto ciò che Marco chiedesse.
Soffriva quella indifferente resistenza. Ma era allo stesso tempo affascinato da quel suo esserci e non esserci. Presente ed eterea. Mai di nessuno. Nessuna appartenenza. Il tempo di una esperienza condivisa di breve durata. Era fatta così, lei. Ma non era una scelta precisa la sua. Raramente si prestava ad andare in profondità. Impenetrabile.
Eppure qualche volta gli era sembrato quasi di esserci. Di aver trovato la chiave. Ma poi … puff. Sparita, come in un sogno, ad aspettare la prossima coincidenza. L’incontro fortuito in cui tentare di giocare il tutto e per tutto per trattenerla.

Ricordava spesso quella prima volta, quando la vide entrare in quella sudicia sala prove, rimediata in un angolo della bisca di paese. Accompagnava un suo amico di passaggio in quel vestito estivo a fiori minuti. Bretelle fini, l’unico impedimento per contemplarla interamente…
Tra un pezzo eseguito alla meno peggio e l’altro si fumava qualche sigaretta. Anche lei ci provò quella volta, tossì e rise arrossendo.
Marco si offrì di riaccompagnarla a casa in motorino. La prima di tante volte, ma sempre troppo poche.
Sentiva il suo corpo aggrappato dietro. Sinuoso e morbido. Avrebbe preso qualsiasi direzione che lei avrebbe proposto.
Ma nessuno proposta arrivò da quelle labbra mordicchiate, né allora né mai. Allora fu lui a decidere, come ogni volta, fu lui a fermarsi per un po’ sulla sua collina, quella delle letture in solitaria. Quella della quercia sotto la quale erano rimasti seppelliti, negli anni della fanciullezza, i ricordi più cari. Il varco verso i suoi mondi nascosti…

Le prese la mano e la fece accomodare su un plaid che teneva sempre nella sella del motorino, insieme a qualche libro e l’ultima uscita dei suoi amati Dylan Dog.

Era l’ora del crepuscolo, l’ora per vedere l’invisibile.
Sulla vallata colma di case, che parevan sommerse, proprio a quell’ora passava il galeone fantasma, il Vasa, con tre alberi, dieci vele, 64 cannoni… così splendidamente intarziato nel legno vivo e scricchiolante. Passava sull’acqua invisibile sopra la cittadina imponendo il suo gioco di luci a ritmo lento e danzante. Maestoso lasciava la scia di piccole stelle, che parevan residui di spuma di mare.
Lei sgranó gli occhi, pianse, con i capelli al vento come quelli di un’antica sirena.

“Una triste sorte quella di questo vascello. Il Vasa sarebbe stato, con probabilità, utilizzato contro la Polonia, che in quell’epoca era la nemica principale della Svezia.
Poco prima del varo il capitano nutrì dubbi sulla stabilità della nave. Fu progettato per portare meno cannoni, ma a quanto pare vollero strafare… Nonostante alcune prove avessero dimostrato l’instabilità della nave, per ordine del re che aveva investito molto nel progetto, fu costretto a salpare ugualmente. Dopo nemmeno un chilometro di navigazione la nave fu investita da un’onda laterale che la fece rovesciare su di un fianco, procurandone l’affondamento. Ma proprio questa sorte l’ha resa eterna… è ancora ammirabile, praticamente intatta, a Stoccolma. Gli è stato costruito un Museo intorno.
Da bambino la vidi e ne restai folgorato. Con mio nonno riproducemmo una miniatura molto accurata, che poi ho sotterrato sotto questa quercia… volevo dare al Vasa la possibilità di spiegare le vele al vento, come non gli è stato mai concesso.”

Giunti sotto casa sua gli diede un lieve bacio sulla guancia e disse “grazie…” , con quella bocca che era un’arma impropria, ringrazió e sparì nel portone.
Così negli anni una dozzina di volte lui ebbe occasione di aprirle un varco sul suo mondo immaginato. Ma furono troppo poche per riuscire ad affinare la giusta sequenza di mosse per trattenerla lì con lui, per sempre.

Fino a quell’ultima volta, in cui più intraprendente di altre la chiamó di notte, che lei già dormiva, per trascinarla ad un concerto di musica jazz sotto la luna.
E lei accettó. E sorrisero emozionati, e brindarono con buon vino bianco e lui le mostró la via lattea e poi la invitó ad esplorare altre galassie, e approdarono in un mondo perfetto, con acqua azzurra e copiosa, e alte foreste,
e fiori, e frutta, e lo spettacolo di tre lune, tutte crescenti.
Quella volta i suoi occhi brillarono di luce propria e lui credette che forse, che forse…
Quando entrò in quel portone, senza averlo baciato ancora una volta, lui guardò comunque fiducioso all’indomani.
E invece quando la chiamó a casa questa volta rispose sua madre. Era partita, per non tornare.

Un piccolo tradimento. Neanche un arrivederci, o la consolazione di un addio di quelli indimenticabili. O forse sì, la notte prima, a modo suo, con qui suoi occhi lucidi, stranamente ridenti, gli aveva detto proprio addio.

Gli anni passarono. Pensò a lei ogni tanto. Non aprì a nessun altro i suoi mondi. Girò invece il mondo vero, per poi tornare, alla fine, a casa. Proprio difficili da spezzare quelle radici…
E qui si innamorò.
Davvero una ragazza graziosa, Anna. Un amore autentico. Prospettive e sogni concreti. Entrambi con un lavoro interessante, ad assaporare, complici, la loro sommessa e reciproca felicità.

Ogni tanto, da solo, Marco tornava sulla collina, per veder passare il galeone. Sempre più di rado, che Anna gli rendeva così vivibile la realtà, da far smarrire il desiderio di evadere.
Ma il richiamo della propria natura non può essere messo a tacere. Qualcosa torna, riemerge e così si ritrovava lì. E lei immancabile tornava ad affacciarsi nei ricordi con quell’espressione storta e le labbra inviolabili.

Poi un giorno il galeone deviò il suo percorso. Non era mai successo prima, ma lo vide virare fino a puntare con la prua verso la collina dove lui sostava, come fosse un atollo sul quale cercare un approdo.
Le prima luci della cittadina sommersa riverberavano nel fondale scuro, mentre scie di meteore accompagnavo lo sciabordio sonoro dell’acqua che in realtà era aria o forse vuoto cosmico o il semplice respiro sospeso dei sogni.
Il galeone fantasma, era davvero identico al modellino che con suo nonno costruì da bambino. Ma enorme…
E come quel prezioso oggetto sotterrato in una bottiglia sotto la quercia anche quello non presentava ospite alcuno. Almeno non visibile… no, un momento, non questa volta.

Lei. Lei era a bordo.
Scese come se percorresse una scala invisibile.
Era identica a quella prima volta, con il vestito a fiori minuti e quelle bretelline in realtà solide, ma dall’apparenza effimera.
Non disse una parola. Lui guardó la cittadina, la casa di Anna, ma lei gli prese il viso tra le mani.
Avrebbe resistito a qualsiasi altra tentazione, ma quelle labbra lo risucchiarono come in un vortice. Sentì lieve il sapore del sangue di quel labbro mordicchiato, come aveva sempre immaginato. Poi osservò da vicino quegli occhi tristi e pregni di un passato mai vissuto, di un futuro mai concesso.
In assenza di gravità navigarono insieme mondi al ritmo di un unico tantrico respiro. Uniti. Finalmente.
Si addormentarono in un abbraccio.
Al suo risveglio sotto la quercia lei era ancora lì, con i capelli al vento e le lacrime che inondavano quel viso da bambina.

“Sei morta, è così?”
“… si, da molto tempo.”
“… come?…”
“Non potevo amarti, odiavo troppo me stessa… Odiavo che tu mi facessi sentire cosa significa essere felici, quando non avrei mai potuto esserlo.”
“Capisco, credo. Come… No, preferisco non saperlo. E perché sei qui, ora?”
“Credo sia sempre stato il mio compito, il mio destino, quello di essere qui, oggi, con te.”
“… Sono morto anche io?”
“Non ancora. Dipenderà da te, da me, da Anna.”
Si materializzò una vecchia porta in legno. Lei gli prese la mano e la oltrepassarono.
La porta dall’altra parte era affiancata da altri due usci, molto simili in apparenza. Si trovavano in una grande stanza. Poteva sembrare quella di un Museo. Ampia, composta, dal sapore antico e moderno allo stesso tempo. Le porte illuminate da una luce dalla tonalità dorata la rendeva meno scura.
“Un bivio…?”
“Già.”
“Sei qui per guidarmi, immagino, ti ascolto.”
“La prima porta ti porterà alla vera morte. Il nulla. La pace eterna. Puoi aprirla se vuoi… ”
Era la porta più semplice, senza fronzoli o iscrizioni strane. Una maniglia con battente. Quasi non servì spingere, si aprì sul buio più nero. Poi lentamente delle fiammelle iniziarono a prendere vigore, e pian piano forma. Erano corpi nudi e dormienti all’interno di sfere fluttuanti e trasparenti. Uomini, donne, vecchi, bambini, tutti in posizione fetale, tutti con il cordone ombelicale.
“È la scelta delle anime stanche. Qui si ringenerano…”
All’improvviso come un palloncino da cui fuoriesce tutta l’aria non appena si rilascia la presa dall’indotto slegato, la sfera si sgonfiò e dopo due rapidi volteggi si dileguò.
“Era pronta per rinascere.”
“… Un momento ma quella… sei… sei tu…”
In una sfera lei fluttuava immobile. Finalmente in pace. Le labbra socchiuse in una specie di sorriso.
“Ti stupisce? Era l’unica opzione nel mio caso. Ben prima di giungere alle porte avevo già fatto la mia scelta.”
“Mi spiace.”
“Oh, mai stata meglio. Credimi… credo che me ne staró così per un bel po’. ”
“La terza porta…”
“La terza porta è la tua opzione. Puoi scegliere di tornare indietro.”
“Ma sono tipo in coma? Ho avuto un incidente?…”
“No, è solo questione di equilibrio da preservare. A molte anime viene data questa opzione se i numeri lo consentono… qualcuno morirà al tuo posto… L’incidente avverrà o meno alla fine di questo sogno… dipende dalla tua decisione, ma se avverrà, quell’incidente sarà mortale.”
“Sarebbe egoista…”
“Non è detto, qualcuno magari sta cercando proprio quella pace. Come è stato nel mio caso. Ed ora veniamo alla porta centrale…”
“Provo da solo. La porta centrale, da dove siamo venuti io e te, è un limbo. Lo sguardo sulla realtà e quello sui miei mondi immaginati coesistono. Tu sei con me… E sei tutto ciò che ho sempre sognato.”
“Potrebbe bastarti? Potresti restare con me ad esplorare quei mondi immaginati…?”
“Sono i miei mondi immaginati, non hanno segreti per me… e anche tu, non sei tu… sei Lei, ma per come l’ho sempre immaginata… perfetta, ma non potrai mai sorprendermi. Nulla oltre quella porta potrebbe. ”

E così dicendo aprì la terza porta. Guardo Lei per l’ultima volta poi volse lo sguardo verso Anna che stava guidando. Pianse. Per lei e perché capì che con la sua scelta, molto probabilmente, aveva salvato anche la donna che amava.
Dall’altra parte del mondo un uomo fu ucciso. Un padre di famiglia, e un politico corrotto. Si disperò, spergiurò… che ancora tanto aveva da dare alla comunità. Promise al suo aguzzino, appartenente ad un’altra “famiglia”, che lo avrebbe reso un uomo ricco, anzi ricchissimo se solo gli avesse risparmiato la vita.

Purtroppo nessuna opzione, quel giorno, era rimasta.