Mi guardo le mani: sono sporche di sangue.
Maledizione! Bestemmio in silenzio, mi guardo intorno. Buio, appena un lampione una cinquantina di metri più in là. Abbasso gli occhi, lo vedo ai miei piedi, il coltello che ancora spunta dalla carotide.
Istintivamente faccio per chinarmi, mi viene da estrarre il coltello, pulirmi le mani sulla sua giacca, eliminare questa lordura. Ma per fortuna l’esperienza e l’addestramento intervengono ad aiutarmi: il sangue è sgorgato come un fiume, colpa del fatto che lui si sia girato, o forse della mia imprecisione, ma è solo suo. Però se mi pulisco posso lasciare tracce del mio DNA, errore. Inoltre il cuore potrebbe battere ancora, il coltello in parte fa da tampone. Quanto sangue è uscito? Difficile dirlo al buio e con il selciato bagnato di pioggia, meglio stare calmi e aspettare qualche minuto.
Sono calmo, le mie pulsazioni sono inchiodate a 72, come al solito. Il fatto che senta l’impulso di allontanarmi è normale istinto di conservazione, ma è proprio quello che ti frega. Che ha fregato tanti miei colleghi.
Chi era quest’uomo? Sì, nella busta oltre ai codici per sbloccare i soldi c’erano le solite informazioni, ma voglio dire: chi era veramente?
Aveva una famiglia, dei figli, dei progetti per il futuro: poteva immaginare che tutto sarebbe finito così, in questo vicolo buio, in una piovosa notte d’ottobre? No, certamente, ma forse temeva qualcosa. Magari aveva un’amante, o faceva operazioni illecite…. Di sicuro aveva dei nemici, altrimenti perché mi avrebbero pagato per eliminarlo? Ma nel mio lavoro si forniscono solo le informazioni essenziali, quelle utili per portarlo a termine, il resto non interessa e non deve interessare. Non solo sarebbero inutili, ma anche pericolose, potrebbero portarti a non essere sufficientemente freddo, impersonale.
Rido: io che empatizzo con le mie vittime! Assurdo. Sono pezzi di carne morta che ancora camminano, e in fondo qualche motivo per farsi ammazzare ce l’’avranno pure, contrariamente ai vitelli e agli agnelli, e se non lo conosco potrei leggerlo domani sui giornali. Ma non mi interessa, non lo faccio mai.
Sospiro, guardo l’orologio. Sono un’ombra tra le ombre. Riprende a piovere, sento l’acqua nelle scarpe, nonostante la suola di gomma. Faccio un passo indietro: se un rivolo d’acqua me le contamina con il sangue sarò costretto a gettarle via, e sono delle Scamardo originali da cinquecento euro.
Il terreno è in leggera pendenza: faccio il giro e mi porto a monte del cadavere. Mi chino, questa volta sì, ed estraggo con delicatezza la lama dal lato della gola. Stavolta escono solo poche gocce di sangue. Sorrido soddisfatto.
«Idiota», penso, «ti sei voltato di scatto e hai fatto un bel casino! Per fortuna adesso è tutto a posto».
Infilo il coltello nel suo sacchetto di plastica, da cui lo tirerò fuori solo per sterilizzarlo, metto tutto dentro un altro sacchetto per sicurezza e me lo infilo nella tasca del soprabito.
Percorro pochi metri, con circospezione, mi guardo intorno ed esco dal vicolo. Attraverso alcune strade, sempre dirigendomi verso il centro, poi mi infilo nella metro.
Striscio vicino ad una ragazza ed il contatto mi provoca una involontaria erezione. Lei sembra quasi accorgersene, e mi osserva incuriosita, poi decide di ignorarmi e si volta dall’altra parte.
Le porte si chiudono, il treno si mette in movimento. Sento sul volto l’aria fresca della sera, un sollievo. Dovrò tenere la parrucca e il resto del travestimento ancora per un po’, maledizione anche alle telecamere di sorveglianza!
Una volta era più facile, meno problemi. Anche più poetico, creativo:
«Jack Lo Scalzo!» gridavo. Lui si voltava e BANG! BANG!. E nessuno aveva visto niente.
Mi stringo nella spalle: i tempi cambiano e il mondo è una tavola non scritta.
Ho un lavoro in cui sono bravo e che mi rende bene: sono un uomo fortunato.
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