Caldo. Il vento del deserto sollevava polvere infuocata che colpiva i visi degli uomini come carta vetrata, costringendoli a ripararsi dove potevano. La sabbia penetrava dappertutto, nelle trincee, dentro le tende militari, nei vestiti, negli scarponi, sotto le unghie e soprattutto negli occhi, che tutti avevano continuamente arrossati. Il nemico non stava meglio, là, oltre la terra di nessuno, sconvolta dalle esplosioni dei mortai e intricata di micidiale filo spinato, tagliente come un rasoio.
Nessuno sapeva perché fossero lì a fronteggiarsi, e se i comandanti ne erano al corrente si guardavano bene dall’informarne la truppa, che d’altra parte si era ormai rassegnata a quella guerra di posizione stranamente immobile, senza sortite, con sporadici colpi da una parte e dall’altra.
In un tempo in cui la facevano da padrone aerei ed elicotteri, missili e tutte le diavolerie della guerra moderna, in quel posto dimenticato da Dio soldati ed ufficiali vivevano in un tempo sospeso, senza passato né futuro.
«È sempre meglio che essere nel fuoco della battaglia», dicevano gli anziani, che quell’esperienza l’avevano già avuta e se l’erano fatta bastare, «e comunque prima o poi la guerra finirà, e qui abbiamo maggiori possibilità di arrivare vivi a quel giorno».
Avevano ragione, naturalmente, ma molti giovani non la vedevano così: non che avessero voglia di lanciarsi all’attacco per finire dilaniati dai proiettili nemici, qualcosa di questo genere l’avevano visto anche loro, ma quella noia, dicevano, li stava uccidendo come un colpo di moschetto. O quasi.

Le licenze erano rare, i trasporti difficoltosi, ma il cibo non scarseggiava perché entrambi gli schieramenti si rifornivano dagli abitanti del posto, ben contenti di vendere i loro prodotti a due diversi clienti, tutti dotati di valuta pregiata. I villaggi si erano anzi industriati per sfruttare al meglio quella situazione, creando insediamenti da entrambi i lati delle trincee, ognuno con i propri negozi, bar e bordelli, alla faccia dell’etica musulmana. Tutto molto facile, ma anche molto semplice, e ciò che è semplice alla lunga diventa poco interessante, così si inventavano strani giochi…

«Keene, imbecille! Metti giù la testa!»
Il soldato rimase ancora un istante nella posizione, poi si abbassò di scatto. Un paio di secondi dopo un colpo di fucile spazzò la polvere nel punto in cui lui aveva il capo.
«Volevi farti ammazzare?»
Keene si voltò verso l’ufficiale con un sorriso.
«Tranquillo capitano, è tutto calcolato. C’è sempre qualche pivello che ci casca!»
«Cosa sarebbe calcolato, disgraziato? Il modo in cui volevi suicidarti?»
«No, no, mi ascolti!» adesso il soldato sembrava preoccupato «sa a quanta distanza può colpire un cecchino?»
L’ufficiale era perplesso.
«Credo sia oltre duemila metri…»
«Il record è di più di tremila metri, ma si sta parlando di campioni. Le linee del nemico sono a circa mille metri, e le assicuro che anche con un 50 BMG o con un 7,62X54R non è affatto facile fare centro, a meno di non prepararsi per dei minuti…»
«E allora?»
«Allora, per vincere la noia, a volte facciamo delle scommesse: ci esponiamo per alcuni secondi, il tempo che un tiratore scelto ci noti, prenda la mira ma non sia ancora pronto a sparare, poi ci abbassiamo. E non lo facciamo mai nello stesso posto. Gli anziani lo sanno, ma ogni tanto si becca qualche nuovo arrivato e si scommette…»
«Voi siete impazziti!»
«Sissignore!»
«Farò finta di non averla vista, ma se mi capita ancora di assistere ad una cosa del genere, o anche di sentirmela riferire, le giuro che finirà davanti alla corte marziale!»
«Sissignore signor capitano!»
Il soldato si era irrigidito sull’attenti. Mentre altri suoi commilitoni assistevano alla scena senza parlare. Il capitano, consapevole che più di così non avrebbe ottenuto e immaginando le risate dei soldati appena fosse stato fuori portata si allontanò, soddisfatto di avere almeno salvato la faccia.

Il pensiero di quanto aveva visto non riusciva però ad abbandonarlo: possibile che per vincere la noia i soldati mettessero volontariamente a repentaglio la propria vita con quello stupido gioco?
Nei giorni successivi non gli capitò più di assistere a situazioni del genere, ma non si illudeva che avessero smesso: semplicemente avevano delle sentinelle che avvisavano i giocatori dell’arrivo di un graduato. Funzionava sempre così.

Il sole si stava abbassando all’orizzonte, lungo una linea che era pressapoco a metà dei due schieramenti. L’aria era calma, trasparente, le ombre cominciavano ad allungarsi sulla sabbia.
Lontano si vedevano i contrafforti della trincea nemica, nitidi.
Obbedendo ad un suo istinto, l’ufficiale si pose ad osservare attraverso un binocolo a periscopio, e non appena gli occhi si furono abituati vide i movimenti dei soldati in lontananza, sotto forma di puntini che apparivano e sparivano dalla trincea. Per un momento immaginò di vedere un nemico esporsi allo scoperto: quanto tempo ci avrebbe messo ad imbracciare, prendere la mira e sparare?
No, pensò, un cecchino in caccia doveva essere sempre pronto, con il fucile in posizione: doveva solo trovare il bersaglio, focalizzarlo e… Cinque secondi? Lui non ce l’avrebbe mai fatta, ma un tiratore esperto forse sì… Comunque in meno di cinque no di sicuro.

Continuò a camminare, rimuginando quei pensieri. D’improvviso si rese conto che si era fatta quasi ora di cena. Nell’atmosfera rilassata di quei mesi nelle postazioni rimanevano soltanto pochi soldati di guardia, gli altri andavano a mangiare tutti insieme. Era quasi un tacito accordo, quell’infrazione ai regolamenti, un modo per sconfiggere la noia. Un altro modo.
Era solo. Si guardò intorno: nessuno a destra, nessuno a sinistra. Silenzio. Era estate, il sole non era ancora calato, la visibilità era perfetta…
D’ impulso si tolse il cappello, scalò la trincea e si alzò, tutto il busto in bella mostra: un secondo, due secondi, tre secondi…
Si gettò nella trincea, il fiato in gola: quattro secondi, cinque secondi…. TA-PUM!
La pallottola colpì il punto dove si trovava appena due secondi prima.
Una strana ebbrezza percorse i nervi del capitano, che restò per qualche minuto in quella posizione, in fondo alla trincea, ad assaporare l’adrenalina che gli scorreva nelle vene…

L’estate era passata da un pezzo, quando fece ritorno nella trincea: durante quel periodo era stato richiamato in patria per un periodo di aggiornamento, poi impiegato per dei lavori di routine presso lo Stato Maggiore. Quando cominciava a credere di essersi definitivamente imboscato arrivò l’ordine di ritornare al suo vecchio battaglione, nel Deserto dei Tartari, come veniva definito ironicamente dai colleghi per sottolinearne l’inutilità.
Accettò l’incarico senza fare commenti, non badando neanche alla promessa di una promozione non appena il vecchio comandante fosse stato richiamato, e partì per il fronte non appena gli fu possibile.
Con un senso di acuta nostalgia scese dal camion e vide oltre lo sparuto comitato di benvenuto la vecchia trincea, gli antichi barraccamenti: nulla era cambiato. Bene.
Superò rapidamente i saluti di rito e fu accompagnato al suo alloggio. Ancora una volta sentì il sole ardere infuocato sulla sua pelle, la polvere sfregiargli il viso. Scese nella trincea, rivide facce nuove e conobbe volti sconosciuti.
«Mi scusi», chiese al sergente che l’accompagnava, «dove si trova il soldato Keene?»
Vide che un’ombra passava sul viso del sottufficiale.
«Mi dispiace, signore, è morto.»
«Morto? Com’è stato?»
«Un cecchino, signore.»
«Un cecchino? Ma com’è possibile? Non stava sempre tre…»
Si morse la lingua: stava per tradirsi, forse l’aveva già fatto.
Il sergente aveva notato l’incertezza. Sollevò le spalle e per un attimo sembrò strizzare l’occhio:
«Cinque secondi, signore, un tiro fortunato.»