Mi considero una donna piacente e me lo conferma la mia immagine riflessa nello specchio della mia camera da letto, un complemento di arredo che ho ignorato per tanto tempo. Invece oggi, che stranamente ho la luna buona, perché prenderò delle decisioni importanti sulla mia vita sentimentale, mi sono piazzata davanti alla specchiera a rimirarmi: giro su me stessa, faccio le smorfie, compiaciuta per il fatto di essere carina. Ho i capelli biondi, lunghi e un po’ ricci, che spazzolo vigorosamente, e gli occhi azzurri, che trucco con un ombretto dello stesso colore. Non sono molto alta, sono rotondetta, però ho tutte le curve al posto giusto. Oggi indosso un tubino nero che mette in risalto le mie forme e ai piedi calzo scarpe dello stesso colore dell’abito, con tacco dodici…
Questo mio fisico appariscente, che mi fa sembrare una donna grintosa, fa a cazzotti con il mio carattere che, invece, è molto mite… Da bambina, raccontava mia madre fin da quand’ero in fasce per la precisione, ero molto tranquilla: mangiavo e dormivo.
“Togli le mani dalla bocca e non mettere le dita nel naso”, diceva mia madre,“Sì, mamma” rispondevo sempre.
In effetti, erano giusti rimproveri, ed io ero sempre ubbidiente, anche quando venivo ammonita per altre cose, alcune ingiuste… Come quella volta in cui mi sorprese a dare da mangiare a un gatto randagio, sotto al portone della nostra casa. Mi diede uno schiaffo e mi disse: “Noi siamo gente perbene e tu non sei una gattara. Non lo fare mai più!”.
“Va bene, mamma”, risposi contrita.
E da allora non avvicinai più un gatto in vita mia. E per questo ho odiato mia madre.
Quando andai a scuola anche con la maestra ero molto sottomessa. Lei spesso mi rimproverava a brutto muso: “Marcella, non fare le orecchie ai quaderni. E non macchiarli d’inchiostro!”
“Sì, signora maestra”, rispondevo con un filo di voce.
Anche lei si approfittava del mio carattere dolce, della mia predisposizione a non controbattere, “Tieni in ordine il grembiule e il tuo fiocco e durante la lezione, smettila di chiacchierare con la tua compagna di banco”, diceva ogni volta che mi vedeva entrare in classe, con una mano sul fianco e un piglio autoritario.
“Sì, signora maestra”, rispondevo sempre a capo chino.
Andando avanti con gli anni il mio carattere non cambiò. Quando iniziai a lavorare alla Rinascente mantenni sempre lo stesso atteggiamento docile. Presto divenni lo zerbino del mio datore di lavoro e dei colleghi. Non avevo mai un giorno di ferie o un permesso. E il mio capo, con un sorrisetto sotto i baffi, mi diceva: “Se vuole diventare una brava commessa, deve essere disponibile a cambiare reparto”.
“Certamente”, rispondevo ossequiosa.
Difatti un giorno ero in profumeria, un giorno al reparto casa e un giorno all’abbigliamento femminile. Ancora le cose non sono cambiate, tanto che i miei colleghi mi deridono per tanta accondiscendenza.
Il fatto è che questo mio modo di essere mi fa stare male. Mi sento una donna che non vale niente, fragile, insicura.
Ho anche pensato di rivolgermi a un dottore per farmi aiutare, ma non ho mai avuto il coraggio di cercare una psicologa. Così adesso sono diventata anche succube di Fausto, il mio compagno. Sono sicura che, quando stasera mi vedrà vestita in questo modo, farà le sue solite battute: “Ma come ti sei conciata? Sembri una zoccola”.
Ma questa volta non gli dirò: “Vado a cambiarmi”. Mi sono rotta le scatole di assecondare sempre tutti i suoi desideri, di dire sempre: “Sì, va bene”.
Inizierò a negarmi. Devo assolutamente cambiare.
Aspetto l’ora per uscire, mi preparo un aperitivo analcolico, sorseggio la bevanda gassata e mi abbandono al ricordo di quando ho conosciuto Fausto.
E’ accaduto qualche anno fa. Con lui ci incontravamo ogni mattina e ogni sera alla stazione del nostro paese perché, come seppi in seguito, eravamo entrambi pendolari. La prima volta che lo vidi rimasi colpita dal suo aspetto. Era alto, slanciato, aveva folti capelli lisci un po’ lunghi e gli occhi di un bel colore nocciola. Ci guardavamo e ci sorridevamo sempre, e ogni volta sentivo battere il mio cuore all’impazzata. Nessuno dei due, però, faceva il primo passo tanto che pensai, con un po’ di tristezza, che fosse sposato.
Poi finalmente ci fu l’occasione di fare amicizia. Una sera scendendo dal treno inciampai e caddi sbucciandomi un ginocchio. Fu lui a soccorrermi. Mi aiutò a rimettermi in piedi e mi accompagnò a una fontanella, dove bagnò un fazzoletto di cotone con il quale mi asciugò il sangue che colava lungo il ginocchio, e constatò che non era nulla di grave.
“Se vuole, l’accompagno a casa”, disse.
Colsi l’occasione al volo. Così raggiungemmo il parcheggio della stazione dove c’era la sua Smart. Durante il percorso mi fece delle domande, mi chiese il nome e l’età passando a darmi del tu. Mi disse di chiamarsi Fausto. Quando giungemmo alla mia casa lo invitai a prendere un aperitivo.
“Magari… Ho una gran sete!”.
Quando entrò nel mio appartamento ammirò la casa arredata in stile provenzale, poi ci accomodammo nel piccolo soggiorno, vicino all’ingresso dove c’era un divano e due poltrone color avana con tanti cuscini colorati. Mentre beveva a grandi sorsi la bibita analcolica, mi chiese se fossi sola.
“S, e tu?”.
“Anche io sono solo”.
“Ti pensavo sposato” .
Rise di cuore, mi arruffò i capelli, “Che vai a pensare… Finora non ho voluto sposare nessuna donna”, poi guardando l’orologio “Si è fatto tardi… Sabato sera però andiamo a mangiare una pizza al paese vecchio, dove abito”.
Fu la prima decisione presa anche per me, ed io dissi per la prima volta: “Sì, va bene”.
Non me ne resi subito conto, ma anche in seguito non avrebbe mai chiesto il mio parere, non avrebbe mai domandato se mi piacesse fare quello che mi proponeva, o se gradissi questo o quel locale. Quando giunse il fine settimana mi venne a prendere con la sua macchina e raggiungemmo il locale al paese antico. Dovetti ammettere che era un bel posto, arredato in stile rustico. I tavoli erano di legno massiccio, le sedie di paglia e alle finestre le tendine erano a quadretti bianchi e rossi. Anche le pizze erano buone.
Tra un boccone e l’altro parlammo molto di noi. Fausto mi disse di aver perso i suoi genitori quando era ancora un bambino a causa di un incidente stradale. I suoi stavano andando a trovare dei parenti in Puglia. Così fu cresciuto da due sorelle più grandi, che poi si sposarono e andarono a vivere a Roma. Rimasto solo nella casa al paese vecchio ed essendo ormai più che adulto, si decise ad accettare il lavoro di impiegato al Comune di Roma, ottenuto grazie a una raccomandazione del cognato. Mi disse anche che aveva avuto tante donne, ma che non si era legato con nessuna perché lui cercava una compagna dolce e… remissiva. Usò proprio quel termine!
A questo punto mi sarei dovuta alzare e andare via. Invece accettai il dolce che aveva ordinato, un tiramisù molto gustoso, tanto che Fausto si complimentò con il cameriere che girava tra i tavoli. Anche se si sentiva il vociare dei clienti e il rumore di piatti e bicchieri, passai a raccontare di me. Gli dissi di essere figlia unica, e che mio padre e mia madre gestivano un supermercato nella zona industriale del paese. Poi, ad un certo punto gli affari andarono male e i miei genitori vendettero il negozio, e si trasferirono a Roma per lavorare come dipendenti, sempre in un supermercato.
“Sono impiegata come commessa alla Rinascente. Anche io ho avuto diversi uomini, ma non ho trovato quello giusto perché, al contrario di te, con un compagno cerco un rapporto alla pari.”
Mi guardò corrucciato e io gli chiesi di accompagnarmi a casa. Lo fece, e devo ammettere che si comportò da gentiluomo.
Una volta sola, nel mio appartamento, pensai che forse era il caso di troncare subito questo rapporto con Fausto, ma la realtà è che già speravo che, con il tempo, Fausto sarebbe cambiato.
Non fu così. Anzi, le cose peggiorarono. Ci finii abbastanza presto a letto insieme. Accadde una sera a casa mia. Dopo aver cenato ci sedemmo sul divano, tra un cuscino e l’altro, a bere un amaro. Ad un certo punto Fausto avanzò un approccio che subii passivamente… Mi cinse le spalle e iniziò a baciarmi il collo e le labbra. Poi il seno e le cosce. E con voce roca mi disse: “Ti voglio!”.
Durante l’amplesso fu molto appassionato, ma io non godetti perché il comportamento prevaricatore di Fausto mi aveva resa molto fredda nei suoi confronti.
Da quel giorno volle sempre fare sesso con me, e io anche se non ne avevo voglia non mi negavo mai. Ma sono arrivata all’esasperazione perché mi ha messo praticamente i piedi in testa, così sogno l’occasione in cui gli dirò un bel: “No, grazie!”.
Suonano alla porta. Vado ad aprire e vedo Fausto vestito con un completo scuro e con un mazzo di rose rosse in mano. Appena entra mi porge i fiori e con gesto plateale allarga le braccia, “Il mese prossimo ci sposiamo “ dice.
“Cosa?” dico furiosa. “Ma tu vuoi, decidere anche per me. Ma chi ti credi di essere? No, grazie non voglio sposarti e anzi esci definitivamente dalla vita mia!”.
Completamente spiazzato spalanca gli occhi e balbetta “Mar.. mar… cel.. la, pro… proprio tu? Non ti, non ti… riconosco. Non sei più la do, la donna che ho a, amato… Anche io non vo, non voglio una moglie con questo ca… ca… carattere!”
Gira sui suoi tacchi e se ne va sbattendo la porta d’ingresso. Il giorno dopo, anche se sono cattolica – non praticante – entro nel Duomo del mio paese e inizio a pregare ai piedi della statua della Vergine Maria.
Madonna mia
ti ringrazio per avermi dato la forza di ribellarmi.
E spero che non sia la prima e ultima volta.
Che abbia, finalmente, modificato il mio carattere?
Aiutami, per il mio futuro.
Mi faccio il segno della croce ed esco dalla chiesa, e per la prima volta nella mia vita mi sento soddisfatta: ho tirato fuori le unghie. Ho il cuore pieno di speranza.