SFACCIATO

Le mie bambine sono sempre contente di visitare posti nuovi. Entro subito in sintonia con le loro risate, forse perché, a modo mio, sono stata felice qui.
Il pensiero vola a quella breve, intensa avventura. Forse finita al momento giusto, per idealizzare meglio quel che avrebbe potuto essere.

A Pisa decidiamo di entrare in una galleria d’arte che si affaccia in un vicoletto. E questo posto sì che mi ricorda qualcosa.
Una parete in particolare mi colpisce e no, non mi sono sbagliata: in un angolo li vedo, ci sono i suoi occhi appesi. E sono belli e netti, capaci di far riemergere dettagli che credevo ormai perduti.

Ritorno alle 5 di mattina di diversi anni fa, quando mia madre apre la porta della mia stanza, si siede sul mio letto, spegne Breakfast in America. I Supertramp hanno colmato i miei vuoti per tutta la notte. Mi formula il suo invito, che deve guidare fino a Pisa per lavoro. Una occasione per stare insieme, «che al momento non hai lezione all’università» mi dice, «puoi portarti da studiare».

Infilo nello zaino militare rubato a mio fratello qualche maglietta, mutande e un jeans di ricambio, Cinema e psicanalisi di Christian Metz da studiare e poi senza riuscire troppo a connettere seguo mia madre.

Il viaggio è accorciato da una ricaduta nel sonno, accompagnata dalle note sensuali di Caravanserai di Santana, che digerisce bene anche mamma.

Tra una chiacchiera e l’altra mi chiedo cosa farò a Pisa da sola per una tre giorni interi…

Arriviamo a destinazione giusto in tempo per la sua prima riunione, ci diamo un appuntamento di massima per la sera e in breve mi trovo mollata quasi in corsa ad un incrocio, in cui rischio seriamente di essere investita. Raggiungo Piazza dei Miracoli guidata a vista dalla torre pendente.

Bella davvero questa piazza. Ma sono sola in mezzo a turisti e circoletti di studenti. E per quanto grande sia, molto presto ho percorso l’area in lungo e in largo. Ripetutamente.

Sono incappata in un vecchio disco inceppato e devo trovare il modo di uscirne. Decido di sedermi a prendere un caffè, che ne ho davvero bisogno. Mi siedo e inizio a leggere Ninna Nanna di quel folle di Palahniuck. Per fortuna ho sempre un libro con me in borsa, odio trovarmi da sola nei tavoli di bar e ristoranti. Non so mai dove rivolgere lo sguardo. Però questo posto è carino, e poi i Led Zeppelin ci stanno tutti. Leggo e intanto passo la mano tra i miei capelli di un paio di millimetri, che sembrano una moquette.

Troppo pratico questo look alla Sinead ‘O Connor.

Dissimulo il fatto che mi sento osservata da un paio di occhi scuri. Intensamente.

Sfacciato il tipo. Gli si avvicina un venditore ambulante, rasta. Sembrano conoscersi bene, osservo la scena inforcando maldestramente l’imitazione di Rayban da 5 euro acquistata sul litorale di Ostia. Ridono stile «bella fratè» e si salutano con un cinque.

Poi il rasta mi viene incontro ed io dico «no, grazie».

E lui, sornione, «Ma il mio amico ha già pagato…» e mi porge un ciondolo a forma di tartaruga, di legno. Sfacciato.

Non posso evitare di sorridere, e i due insieme «oh! Finalmente!».

Senza neanche rendermene conto lascio il bar, ma esito sulla soglia, devo solo finire di ascoltare fino all’ultima nota Starless, non potrei mai lasciare sul più bello proprio i miei amati King Crimson. Mi ritrovo scortata da quella strana coppia di sconosciuti per i vicoli della città. Vicino all’Arno lui mi fa «ferma, devo ritrarti, devo ritrarre quella bocca».

Studenti d’arte.

Ho fame. Decido che oggi offro io e loro saranno miei ospiti. Non fanno troppa resistenza. La vita bohemien di due studenti d’arte che tirano a campare. Il piacere di offrire un pasto decente si raddoppia. Vorrà dire che farò qualche ripetizione in più al mio ritorno. Mi portano in un’allegra trattoria toscana e mangiamo bene davvero. Ottimo il vino della casa, delizia per il palato gli antipasti. Musica non degna di nota. In tutti i sensi.

Usciamo e mi ringraziano, ma il caffè vogliono offrirmelo a casa loro. Sono folle forse, ma mi fido. In genere leggo bene le persone e questi sono due bravi ragazzi. Ok… andiamo. Mi siedo dietro Jonas, sulla sua bici sgangherata e il vento mi manda frustrate di dreadlocks in faccia.

L’altro, portatore di occhi non autorizzati, se la ride di gusto. La casa si trova in un pertugio di antiche abitazioni popolari, cariche di biciclette su tutto il perimetro. Il viavai di ragazzi più o meno miei coetanei è impressionante. Si salutano tutti. Si conoscono tutti e per non sbagliare salutano anche me, come se mi conoscessero da sempre. Poi fanno un cenno di approvazione verso quegli occhi scuri e ridenti, mentre Jonas raccoglie su la capigliatura impertinente in un elastico di spugna e mi sorride con aria complice.

La casa è piena di dipinti e disegni sorprendenti. Soggetti astratti e figurati, colori e chiaroscuri in ogni dove. Profumo di incenso e caos ordinato, a suon di Wish you were here.

Mi piace! Mi perdo in un paio d’occhi ritratti su un foglio ammucchiato tra gli altri, su un grosso tavolo in legno chiaro, che fa molto nord Europa, al centro della casa.

La sala mi fa pensare alla redazione di Millennium descritta da Stieg Larsson in Uomini che odiano le donne, forse per via della grande finestra. Forse perché si respira una creativa operosità. Due occhi scuri, dicevo, che già riconoscerei tra mille.

«Stasera suoniamo, ci vieni a sentire? Si mangia bene lì».

Mia madre accetta, sebbene sia stanca, di cenare nel locale dove ascoltiamo bossa nova. Non è esattamente il mio genere. Io, lo avrete capito, sono tipo da gusti rock, ma la cena e la birra se ne vanno via con piacere. Poi lui molla il basso ad un tizio tutti piercing e mi viene incontro e mi invita a ballare.

«Non sono capace».

«Ti guido io, tu lasciati andare».

Non posso descrivere cosa è accaduto poi, o forse sì. Volteggio come fossi un burattino tra le sue mani capaci. Quando il brano finisce tutti gli occhi e gli applausi sono per me, che non ho merito alcuno. Lo guardo stizzita, che mal reggo tutta questa attenzione. Lui si avvicina a mia madre, e come uomo d’altri tempi le chiede di potermi accompagnare più tardi in albergo, le giura che baderà a me e che sarò al sicuro. Sfacciato.

Passeggiamo. Per la prima volta siamo soli. Siamo sul ponte ad osservare la luna che si affaccia nell’Arno. Mi bacia. Lo bacio, gli passo le mie cuffie con Let’s spend the night together degli Stones. Sfacciata.

Tre giorni passano come un giro in ottovolante. Come una canzone degli Aerosmith, per intenderci. Lasciando sensazioni da cuore in gola e la quasi incapacità di trattenere un ricordo concreto dell’avvenuto.

Le 5 di pomeriggio, di giovedì, riparto con una nuova relazione a distanza, che se avessi potuto stabilirlo a tavolino proprio no, non l’avrei cercata.

Ma lui ormai esiste e mi pare di non poterne fare a meno.

Vivo con il cellulare in mano, ci scambiamo foto, video, lui mi scrive poesie e si filma mentre suona e canta canzoni portoghesi.

No, così non può durare.

Inizio a capire come ricollocare la mia vita altrove. L’università, la pallanuoto, dovrò trovarmi un lavoro.

Tre settimane dopo sono di nuovo a Pisa, un tramonto da togliere il fiato in Piazza dei Miracoli. E poi stesso locale, stessa band. Ma in più c’è una tizia con i capelli rossi e l’espressione storta. Una tizia da bossa nova. Non mi ci vuole molto per fare due più due. In fondo non lo conoscevo.

Quando mi viene incontro ed evita l’incrocio di sguardi con lei, e dissimula cercando di baciarmi non ho più dubbi. Mi sposto.

«Non sono tipo da scenate» e guardo per un microsecondo verso la rossa.

Lui capisce. Esco, cercherò un albergo per passare la notte. Ma Jonas non ci sta a lasciarmi andare sola e mi segue, mi mette un braccio sulle spalle. Mi faccio guidare a casa di una sua amica. Lui mi guarda con la solita espressione sfacciata.

«E non sono neanche tipo da ripicca o chiodo schiaccia chiodo, quindi fila».

Passo una notte senza musica, poi sono di nuovo sul treno. Sta partendo e per metabolizzare l’accaduto mi sparo in cuffia Nobody’s perfect, live dell’87, ultimo vero atto di Ian Gillan con i Deep Purple.

Mi accorgo che ci sono due occhi neri a scrutarmi sulla banchina. Ma stavolta hanno un’espressione diversa. Stavolta non hanno nulla di sfacciato. Mi giro dall’altra parte.

La voce di Lucilla, che mi chiama trafelata, mi riporta indietro, a quegli occhi appesi, che non posso fermarmi ad osservare ancora per molto, perché mia figlia mi afferra la giacca e mi trascina in una stanza limitrofa; poi mi fa cenno di avvicinare a lei il mio orecchio e ci sussurra dentro circospetta «Mamma, mamma guarda… Quante volte la tua bocca… ».
Ed ha ragione, anche se non sono mai stata così carnale. Io sono un tipo rock, non da bossa nova.
Infilo le cuffie e mi metto ad ascoltare Space oddity, come capita spesso ultimamente in tributo a Bowie, e con finta aria di stizza lo perdono. «Sfacciato».