Il fronte corre tra Tell Abyad e Ras al-Ayn, tra il deserto e la valle del Balikh. Una volta era un’oasi verde, più estesa oltre la frontiera turca, meno dalla parte siriana. Adesso è tutto un campo di battaglia, ma a dire il vero stento a ricordare quando era veramente in pace.
Prima le guerre d’indipendenza, poi i siriani, gli americani, i russi, l’Isis, e sempre i turchi: questa terra non conosce la pace, come non la conosciamo noi.
A volte guardo i miei compagni e penso che non sapremmo neanche vivere senza combattere. Li vedo sporchi, affamati, sofferenti, la barba di giorni, laceri, ma mai domi. Come non lo sono le nostre donne, che dividono con noi i disagi e i pericoli di ogni giorno e riescono anche a sorridere.
Io non ce la faccio. Non è che mi lamenti, intendiamoci, non riesco neanche ad immaginare di andare a lavorare in un ufficio o in una fabbrica, di dover obbedire ad un capo a cui non interessa niente di me né di quello che faccio. Qui so che chi ci comanda ha a cuore ognuno di noi, e che non ci manderebbe mai a morire senza che sia necessario. Per questo quando ci dice di avanzare avanziamo e quando ci dice di ritirarci ci ritiriamo: noi crediamo in lui, come lui ha fiducia in noi.
Dal ritiro degli americani non abbiamo più la copertura aerea e siamo indifesi di fronte all’aviazione turca, così abbiamo dovuto rinunciare alle azioni in campo aperto e ci siamo dovuti rintanare nei valloni e nelle città, dove combatteremo casa per casa, pietra su pietra, fino a ricacciare indietro quei cani o morire. E sì, i turchi sono cani rabbiosi, e la maggioranza è convinta di quello che sta facendo, non tutti, ovviamente, ma la maggior parte sì.
Questa è una guerra civile, una battaglia infinita dove non sono gli stati che si fronteggiano ma le popolazioni. Raramente facciamo prigionieri, e tantomeno li fanno gli altri. Lo sappiamo e lo accettiamo: è la guerra, tutto il resto sono storie da film.
Non è bello stare sepolti in un buco, sentendo passare sopra la tua testa aerei ed elicotteri, troppo bassi per vederli, troppo veloci per colpirli con gli RPG.
Vedo Behram nel suo buco, a una decina di metri da me. Si guarda intorno con attenzione, il lanciarazzi pronto sulla spalla, e intanto fuma una delle sue puzzolenti sigarette. Come faccia a tenere in bocca quella roba lo sa solo lui, ma in guerra ci si abitua a tutto, come convivere con la propria merda, perché non è che puoi andare alla latrina sotto il fuoco nemico. Anzì, le latrine nemmeno esistono, si resta nel buco ed è già tanto se quando è buio qualcuno ti porta una gavetta di zuppa. Poi si striscia fuori e si cerca un’altra postazione, più avanti o più indietro, dipende.
Improvvisamente mi sento toccare su una spalla. Mi volto di scatto, è Keywan.
«Cosa ci fai qui?» gli chiedo «sei matto?».
«Non hai sentito, Neptûn?» mi dice, eccitato.
«No, cosa cazzo avrei dovuto sentire?».
«È finita, Neptûn, è finita!».
«Che cosa è finita?». Non ci credo.
«La guerra! I turchi si ritirano. Gli americani si sono accordati con i russi e hanno imposto il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe turche».
«E tu come lo sai?» chiedo. Voglio sentire che me lo dica.
«Ma è la principale notizia della radio!». Mi guarda.
«Ah, tu non hai la radio» dice.
«Certo che no. Ne avevamo una p r gruppo, ma deve essere rimasta da Birca Eyfelê e tu sai che…».
I suoi occhi scuri si rabbuiano ancora.
«Già, quella bomba di carro. Mi dispiace».
«Era un bravo compagno» dico.
«Sì» fa lui.
Restiamo alcuni istanti in silenzio.
«Ma è vero?» chiedo dopo un po’.
«Certo che è vero! Ti sembra che farei uno scherzo così stupido? Senti il silenzio?».
Non me n’ero accorto, ma non si sentono più gli scoppi delle bombe in lontananza, né l’ululato dei jet in picchiata.
Mi alzo ed esco con cautela dalla mia tana. Dio mio, come puzza! Solo ora me ne accorgo. Prendo l’M16 e le munizioni e metto tutto in spalla. Keywan mi guarda, come a dire «cosa li prendi a fare?» ma è troppo tempo che ci vado anche a letto, e poi non abbandonerei mai le mie armi. Però stanotte farò festa anche io, finalmente potrò mangiare ad un tavolo e magari ubriacarmi. Poi cercherò una doccia e mi leverò di dosso tutta questa sporcizia e chissà… forse troverò una ragazza che voglia festeggiare con me. Forse…
Una violenta esplosione mi getta in faccia la terra e quasi mi spacca i timpani. Sputo cercando di riprendere fiato e di pulirmi gli occhi, e vedo che la bomba è caduta solo pochi metri davanti alla mia buca. Doveva essere un mortaio non ho sentito niente. Ma possibile che…
Mi scuoto. Prima era giorno, ma adesso è notte. Nel buio vedo i lampi delle esplosioni e sento la terra tremare. Vicino a me non c’è nessuno, ogni tanto vedo partire un razzo dalla postazione di Behram, una fiammata rossa che si perde nella notte, poi, dopo qualche secondo, una esplosione lontana. Chissà cosa vede, penso.
Poi mi ricordo: ma non era finita la guerra? E realizzo che era stato soltanto un sogno.
Da qualche parte odo il rombo dei blindati turchi che cercano di accerchiare la città. So di essere inutile, con il mio fucile, ma quando il comandante ci darà ordine di ripiegare in città sarà un altro discorso: lì anche io potrò dire la mia.
Per qualche istante penso con un brivido di nostalgia a quel sogno, alla sensazione di potermi finalmente levare gli stivali, poi scuoto la testa e mi calo sempre più nel fondo della mia buca, mentre i traccianti illuminano la notte.