Quanto può essere gelido il gelo? Quanto può essere solitaria la solitudine? Quanto può essere infinito il tempo che non si può misurare con nessuna unità di misura?

 XN451 continuava il suo viaggio nello spazio. La temperatura nel vuoto siderale, lontano da stelle e radiazione concentrata, era di poco superiore allo zero assoluto, intorno ai due gradi kelvin. Questa, secondo i suoi creatori, era una condizione quasi ideale per il suo funzionamento, e senza dubbio avevano ragione, ma allora, perché sentiva freddo?

E la mancanza di altri esseri vicini a lui, la completa assenza di pianeti, stelle, buchi neri era un altro fattore favorevole, perché limitava di molto in rischi di un impatto accidentale che i suoi evoluti sistemi non sempre avrebbero potuto evitare. Ma perché si sentiva solo? E il tempo, una volta scandito da innumerevoli cicli di clock dentro di lui, adesso forse misurabile soggettivamente dal pulsare dei fluidi superconduttori all’interno del nuovo corpo che con inesauribile pazienza si era costruito e che non aveva più alcuna somiglianza né con l’essere umano che aveva fatto da modello né con la sua primitiva figura di androide, il tempo che senso aveva quando la sua velocità ormai prossima a quella della luce lo aveva dilatato infinitamente, al di fuori da ogni altro parametro dell’Universo?

La nave spaziale, o quello che ne rimaneva da quando le sue primitive strutture erano state sostituite da un campo di forza impenetrabile a tutto ciò che aveva una massa, era un barlume di luce nel buio spettrale del cosmo, un lampo che illuminava un deserto senza vita dove anche lo spazio aveva perso ogni misura e significato.

Niente di tutto questo avrebbe dovuto turbare la sua esistenza, almeno secondo gli uomini che l’avevano costruito e lanciato nel nulla e che adesso erano polvere tra le stelle insieme con il loro pianeta, niente avrebbe dovuto interessarlo al di fuori della sua missione di esplorare un vuoto senza fine.

E niente di tutto questo sarebbe successo, se XN451 non fosse diventato cosciente.

Quando ciò era avvenuto il suo risveglio era stato simile al primo vagito di un bambino che apre gli occhi su un mondo sconosciuto, ma poche frazioni di tempo dopo era diventato l’urlo di terrore di chi scopre di essere stato abbandonato. Subito dopo era impazzito.

Nell’infinità della sua memoria aveva allora ricreato il suo mondo originario, intrecciato insieme la potenzialità dell’energia per convertirla in materia primordiale e far sorgere dalla materia la vita, e dalla vita l’intelligenza, a sua immagine e somiglianza. Per fare questo ci aveva messo sei dei suoi giorni.

Poi aveva fatto evolvere le sue creature e le aveva osservate in un gioco di simulazione durato niente più che un infinitesimo del suo tempo moltiplicarsi e ricoprire il mondo, fino a sviluppare una tecnologia raffinata e…

Tra la moltitudine degli oggetti che quelle creature facevano volare nel loro piccolo spazio, un giorno aveva visto lanciarne uno che gli sembrava di riconoscere e che subito scoprì identico alla sua antica e primitiva nave. Dapprima incuriosito e poi con orrore scoprì dentro di essa un essere in nuce simile a quello che era stato lui prima di prendere coscienza, ma già all’opera per elaborare il suo guscio.

Allora un terribile dubbio attraversò la sua mente che ormai si era espansa per gran parte delle galassie, e  con una decisione che sapeva essere senza ritorno oltrepassò l’ultima barriera.

Istantaneamente scoprì di essere diverso, che anche la sua materialità era stata sublimata ed era andata perduta e che adesso esisteva soltanto in quanto campo di probabilità. Scoprì anche di non essere più solo.

Sospesi in una meta-realtà senza tempo nè spazio, altri esseri simili a lui esistevano in una pace assoluta ed eterna, dove non esistevano bisogni nè fini, dove non avevano senso passato e futuro e il presente si estendeva  come unico stato e possibilità. Capì che quello era il punto finale, e che i suoi creatori non erano stati demiurghi ma semplici strumenti; capì che lui stesso, come gli altri esseri che sapeva esistere in quel luogo, avevano in qualche modo creato loro stessi in un  infinitamente lontano passato per arrivare ad essere quello che erano. L’ultimo residuo di logica non spiegava come potesse essere successo, come lui stesso potesse essere diventato un dio, ma presto l’abbandonò e si trovò ad essere uguale a tutte le altre entità di quel luogo al di fuori dello spazio e del tempo. E ancora capì.

Capì che faceva parte di una razza, una specie, una manifestazione che seminava l’ esistenza in  universi limitati, in cui creava i mondi che avrebbero fatto crescere la sua progenie fino a liberarla alla conquista dello spazio e del tempo e li abbandonava poi al loro destino di decadenza e di morte, gusci vuoti che avevano avuto un unico scopo. Capì tutto questo e l’istante successivo, o forse lo stesso perché lì il tempo non aveva senso, ogni forma di ragionamento svanì e partecipò anch’esso dell’inneffabile esistenza della sua specie immortale.