Spesso si sentiva dire:
‘Lascia scivolare quel cipiglio dal tuo bel viso e sorridi, piccolo mio!’
E lui, dopo un breve accenno di giro all’insù, riprendeva la sua naturale espressione e saliva nella sua cameretta.
Si accomodava sul suo giaciglio
al contrario e a panciasotto per prendersi sul cuore tutto il tepore della trapunta e cominciava a parlare e a gesticolare con un certo disappunto rivolgendosi a qualcuno.

Era solito appoggiare sul baule ai piedi del letto Cimbro, il suo coniglio di pezza color legno caldo.
Lo aspettava accomodato lì, seduto coi gomiti sulle gambe a sostenere il mento, le zampette incrociate, il musetto inclinato e intenerito, un orecchio dritto e l’altro piegato in avanti.
Anche quella volta lo ascoltò senza niente dire, sostenendolo con le sue espressioni di curiosità.
Se ne rendeva ben conto il ragazzino da come i baffetti a raggio sul naso ballavano irrequieti.
E dette libero sfogo al suo piccolo tormento.
Non capiva perché la sua mamma non riuscisse a vedere che la sua faccina ombrosa era genuina e connaturata, e non nascondeva preoccupazioni o arrabbiature come pensava lei. Cosa credeva, che se lei aveva sempre un sorriso illuminante in volto lo doveva avere anche lui?
Invece Cimbro, ah Cimbro…
Quando gli occhi di perla nera del suo coniglio cominciarono ad appannarsi nei propri, languidi e annacquati, comprese bene quanta pazienza avesse avuto nell’ascoltarlo senza interromperlo e ricacciò subitamente le lacrime.
Gli sorrise e in segno di gratitudine lo accarezzò sulla testa, poi rasserenò l’aria intonando una filastrocca.
‘C’era una volta un piccolo naviglio, c’era una volta un piccolo naviglio, c’era una volta un piccolo naviglio, che non sapeva, non sapeva navigar.
E dopo una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane,
e dopo una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane,
e dopo una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane,
il naviglio, il naviglio naufragò!’

In fondo era proprio così che si sentiva lui, una piccola barca senza remi in balìa delle onde.
Aveva bisogno di acque calme in cui cullarsi e per questo si trattenne a lungo nell’abbraccio stretto stretto al suo amico peloso, lasciandosi andare in un pianto dirotto che li fece sussultare sul letto per una manciata di minuti.
Liberato del peso, con gli occhi gonfi e arrossati, si asciugò lacrime e moccoli con una strusciata di manica e ricompose Cimbro, nel frattempo stropicciato e inumidito, al suo posto.
Pensò di affrontare sua madre e scese le scale scalzo senza accendere la luce, come al suo solito.
Arrivato da basso non la trovò a trafficare in cucina come pensava e la cercò, senza però chiamarla.
C’era un silenzio anomalo in casa, di solito la mamma canticchiava mentre sfaccendava.
Si affacciò nella sala aperta sull’ingresso ma non era neanche lì. Fece per tornare di sopra e cercarla in camera quando notò la porta del sottoscala aperta, da cui filtrava una luce.
Si avvicinò, sentì un lamento e capì di averla trovata, riconobbe il suo braccio steso per terra oltre la soglia.
‘Mamma, mamma, che ti è successo? Rispondimi ti prego!’
In ginocchio al suo fianco le carezzò il viso sostenendole il capo e lei aprì lentamente gli occhi, lo riconobbe e gli regalò il sorriso che lui aveva desiderato un attimo prima.
‘Devo essere inciampata sulle scarpe da ginnastica e ho perso i sensi ma sto bene, tranquillo’.
Il ragazzino guardò per terra e le vide lì nel mezzo, poi si tirò una pacca sonora sulla fronte e le lanciò lontano, rammaricato.
‘Le mie scarpe da ginnastica, mamma. Perdonami…’

Le ricambiò il sorriso, la baciò e da quel giorno le ripose sempre al suo posto, nella scarpiera di quel sottoscala.