CINQUE FIGLIE FEMMINE, PER CONCETTO SCALAVINO, NON COMPENSAVANO LA MANCATA NASCITA DI UN MASCHIO
E con la follia della moglie aveva dovuto fare i conti, personalmente occuparsene dal momento che le stelle, e tutti gli astri celesti sparsi a miriadi nell’universo, pareva non le dessero tregua, perseguitandola col bagliore delle radiazioni a cui lei opponeva lo schermo nero di una mascherina, rassegnandosi a vivere al riparo di un buio fittizio a causa del quale come una cieca andava continuamente a sbattere contro i corpi statici, e quelli in movimento, dell’universo fisico.
Concetto Scalavino s’era così trovato a rivestire il ruolo di angelo custode di quella moglie bislacca che girava vestita solo di una mascherina nera e armata del retino per le farfalle col quale, dal suo fittizio mondo di tenebra, menava incauti fendenti.
E così s’era risolto a svolgere a casa buona parte del suo lavoro, riducendo al minimo anche i suoi spostamenti e contando, per la tenuta dell’azienda, sulla solidità del nome e la fedeltà della clientela.
Gli capitava però di sentirsi spesso demotivato in quel suo lavoro, che pur così tanto lo aveva appassionato, defraudato di qualsiasi prospettiva di un futuro cosicché gli era capitato di pensare che se tutto fosse andato in malora ne avrebbe patito solo lui.
Immaginava che diverso sarebbe stato se avesse potuto contare sulla presenza di un figlio maschio, idealizzando la complicità di un rapporto, in quella stessa situazione, perfetto e perfettibile, col passaggio di testimone al compagno di squadra più giovane e più in forma, quello che avrebbe terminato per lui, e nel suo nome, il percorso fino al gradino più alto del podio.
Invece, ironia della sorte, si trovava costretto a far da balia ad una moglie ritornata bambina e a quelle sue due figlie che gli risultavano estranee e alle quali si rapportava in maniera approssimativa, spesso incoerente, poiché di certo loro seppur non lo intralciavano neanche gli offrivano collaborazione.
Su questa riflessione amara riaffiorava come sempre il rancore, per la verità mai sopito, nei riguardi della moglie che, in cambio del benessere e della ricchezza da lui a piene mani elargitele, gli aveva negato quell’unico dono a cui lui aspirava.
Cinque figlie femmine, per Concetto Scalavino, non compensavano la mancata nascita di un maschio
…anche se il pragmatismo e la consapevolezza, doti prioritarie del suo carattere lo inducevano ora, seppur forzosamente, verso il superamento di questa delusione esistenziale che se non poteva ribaltare avrebbe potuto, però, tentare di modificare.
Le tre maggiori avevano contratto ottimi matrimoni, ma nessuna di loro aveva generato un maschio, che per lui sarebbe equivalsa ad una sorta di compensazione, seppur parziale, dal momento che il nascituro avrebbe acquisito il cognome del padre, e non il suo.
Matrimoni, quelli delle sue figlie, circoscritti all’ambiente commerciale, così Concetto Scalavino aveva iniziato a fantasticare sull’ ipotesi di uno sconfinamento in altri ambiti per conseguire un percorso alternativo verso quella sua evoluzione che aveva immaginato possibile solo con la nascita di un erede del suo stesso sesso, e la cui attuazione, adesso, si trovava costretto a vagliare su procedimenti diversi.
Questo suo progetto, (non una necessità dal momento che i suoi affari continuavano a prosperare floridi), era anche un modo per tenersi occupato e sfuggire quegli stati depressivi che lo assalivano con sempre maggior frequenza nella casa abitata dalla presenza turbolenta della moglie, e da quella aliena delle figlie.
In virtù di questo nuovo progetto, che direttamente contemplava il coinvolgimento delle due adolescenti, e il tentativo di stabilire con loro un primo vero, difficile contatto, dal momento che entrambe si mostravano genuinamente avulse alle seduzioni materiali così come alla retorica dei sentimenti che, d’altra parte, Concetto Scalavino, pessimo attore, malamente metteva in scena alzando a sproposito i toni e, altrettanto a sproposito abbassandoli, nell’intento di proporsi in quel ruolo paterno che egli stesso era ben conscio non essere in grado minimamente d’interpretare
.
Queste sue incoerenze generavano scompiglio, nella collaudata convivenza di Gemma e Rebecca, basata sull’autonomia e sul rispetto dei relativi territori, dettami a cui entrambe s’attenevano con la deferenza leale con la quale due soldatesse, che pattugliando i confini dei propri avamposti, si scrutano da dietro le rispettive trincee, senza mai parlarsi, ma consapevoli l’una della presenza dell’altra.
Due soldatesse che non s’erano mai combattute ma che neppure s’erano mai strette la mano, oscuramente trovando in questo loro quotidiano, pacifico fronteggiarsi, una solidarietà che, seppur non s’identificava nell’affetto, di certo radicava nell’empatia
Nella capacità di mettersi nei panni dell’altra.
Entrambe, pur non essendolo, erano cresciute come orfane, nell’indifferenza materna e nel disprezzo paterno, senza quegli esempi del mondo adulto che contribuiscono, nel bene o nel male, a forgiare lo spirito dei giovani, spingendoli all’emulazione o alla ribellione, stimolando contrasti o armonie, indurendo o addolcendo quei caratteri ancora informi quando, immaturi, subiscono la fascinazione dei prototipi parentali: le bambine emulando la mamma così come i maschietti il papà.
Nulla di tutto questo, invece, era toccato a Gemma e a Rebecca che s’erano industriate, fin dalla più tenera età, ad esser somiglianti solo a se stesse, poiché gli adulti che gli si paravano davanti sembravano avere la stessa aleatoria consistenza delle ombre cinesi che, per essere visibili, abbisognano di una luce indirizzata e di una parete disadorna.
Somiglianti solo a se stesse, col risultato di esserlo diventate davvero, ed in maniera così radicale che neppure il miglior pedagogo convinto della sua missione, e per di più supportato dall’ausilio di una ferula, sarebbe riuscito ad imporre un cambiamento.
E ancora minori speranze di recupero lasciavano presagire i metodi abborracciati di Concetto Scalavino.
GEMMA, CREATURA INCOMPIUTA
Gemma e Rebecca, nonostante le defezioni genitoriali, non erano cresciute come creature ribelli.
Nessuna delle due propugnava l’anarchia o il sovvertimento dei codici societari, d’altronde non ne avevano bisogno perché entrambe, nei mondi dove regnavano, le regole erano loro stesse a stabilirle.
Fisicamente si somigliavano: non molto alte ma ben proporzionate, i capelli di fiamma, gli occhi grandi e neri, in contrasto con la carnagione chiara, tipica delle rosse che se in Gemma, al pari delle altre sorelle, aveva acquisito i toni sfumati del pallore materno, in Rebecca, invece, aveva i toni luminosi del miele.
E non era solo l’incarnato l’unica differenza evidente, che da quando Concetto Scalavino aveva iniziato ad osservarle più attentamente, le dissomiglianze gli balzavano evidenti agli occhi.
Gemma, maggiore di Rebecca di un paio d’anni, si mostrava trattenuta, avara di sorrisi e di gesti, scivolava silenziosa tra gli oggetti, e la sua presenza, priva di odore, richiamava quella di una sentinella in avanscoperta in un territorio sconosciuto, attenta ad espletare, nel più breve tempo possibile, la missione affidatele per far ritorno in fretta alla sua garitta.
Quell’affaccio da cui poter sorvegliare il mondo mantenendo le distanze.
Eterea e malinconica, Gemma, creatura incompiuta, era forse più bella di Rebecca ma l’estraneità severa verso se stessa, di cui si faceva ornamento, quella corazza che l’aveva protetta dalle delusioni dei respingimenti, col passar del tempo però, minacciava d’imprigionarle l’anima.
…perché nell’attimo stesso in cui era fuoriuscita dall’utero materno, Gemma aveva da subito percepito, dalla freddezza con cui era stata accolta, la disgrazia di esser nata col sesso sbagliato. E così era venuta al mondo con le labbra serrate e i pugni chiusi. E la ferma intenzione di non piangere.
La levatrice, allora, le aveva dato dei colpettini leggeri per stimolare col vagito il primo respiro.
Quella sculacciata d’incoraggiamento, professionale ed asettica, era stata la sola carezza con la quale era stata accolta alla vita.
A differenza di Gemma e delle altre sorelle che l’avevano preceduta, e che già al momento della nascita avevano accettato, nella stimmata del proprio sesso, il destino del ripudio, e per questo s’erano apprestate a venire al mondo silenziose ed asciutte, in maniera sbrigativa e senza creare problemi aggiuntivi, consapevoli dell’imbarazzo materno e della delusione paterna, Rebecca, invece, aveva trasgredito gli schemi, nascendo con gli occhi aperti e i polmoni liberi e la voce spiegata: un ingresso da protagonista.
Femmina. Senza ombra di dubbio.
Né di pentimento.
Ma la differenza inequivocabile, tra le sue due figlie, era nell’odore: al contrario di Gemma che non ne aveva alcuno, Rebecca, invece, inebriava.
Se ne era reso conto, Concetto Scalavino, la sera che aveva visto il cane di casa masturbarsi con lo stesso veemente entusiasmo di un uomo, davanti la porta socchiusa della stanza da letto della sua figlia minore.