Per letto ha un materassino, per ripararsi dall’umido una copertina, per non sentire tanto freddo una coperta più pesante, per posare il capo, coperto fino alle orecchie da un vecchio cappello, un cuscino ingiallito a chiazze.
Ha una sciarpa un po’ lisa con due giri intorno al collo che quando il vento gliela scioglie e gli scopre la pelle le sue mani corrono ai ripari, mani grandi e dita lunghe che
tamponano lo spiffero con la premura di chi si vuole bene da solo.
È debole, si muove lentamente. Quando si china, ingobbito dentro il corpo infeltrito come un golf di lana lavato male, guarda fisso il fiume giù da basso, dorato dai riflessi del sole e mosso dai soffi del vento autunnale e ci s’incanta giusto il tempo di un brivido.
Poi si lava dignitosamente le mani con l’acqua dentro una bottiglia di plastica, immaginandosela tiepida che scende dal rubinetto.

Da qualche giorno, ogni pomeriggio percorro a piedi la strada appena sopra l’argine del fiume e lo vedo lì sotto a compiere questo rituale.
Non riesco a vederlo in volto, ha capelli lunghi e mossi che gli si appiccicano e lo nascondono.
Ignoro il suo nome e vorrei tanto chiamarlo.
Mi sento impotente e vorrei donargli metà di ogni mio battito pensando al bozzolo che diventerà di notte e a quanto gli faranno male le ossa al risveglio, quando dovrà affrontare un’altra solita e faticosa giornata cercando di sfamarsi e tentando di sopravvivere.

Ieri sono passata di lì a un’orario insolito e ho visto solo il suo giaciglio, lui non c’era.
Ho pensato quale angolo della città avesse scelto per mendicare, l’ho immaginato in qualche vicolo del centro a chiedere un cestino di cibo avanzato ai bistrot e poi ancora alla stazione sulle banchine dei treni ad aspettare qualche buon viaggiatore che potesse fargli carità.
Mi era mancato.
Lo vedrò domani, ho pensato, con il proposito di portargli un po’ di minestra di pane, qualche bottiglia d’acqua e una giacca da sci quasi nuova che mio figlio non mette più.
Sì, gli porterò tutto domani, è stato il mio pensiero prima di addormentarmi.

L’hanno trovato stamattina sulla ciclabile che costeggia il fiume, inerme, con un braccio allungato sopra la testa e l’altro quasi appaiato
quasi volesse nuotare per avanzare, salvarsi dal vuoto e rimboccarsi la coperta per poi riprendere il sonno.
Dormiva sul declivio d’erba del ponte,
deve essersi svegliato mentre cadeva giù.
Sul giornale c’è scritto che si chiamava Angelo e ho pianto.
Voglio pensare che non abbia avuto nessuna paura a precipitare perché stava volando verso quella luce che gli avrebbe dato pace.

(Foto mia)