Tra poco è Natale ma io non sono in vena di festeggiare perché ho perso da poco i miei genitori. Mia madre è morta a ottobre a causa di un cancro all’utero che l’ha fatta soffrire per diversi anni. Mio padre l’ha seguita nell’aldilà nel mese di novembre, morto anche lui, ma a causa di un infarto. Le due anime si sono volute riunire nel regno dei cieli. Io non ho un compagno, non ho amici, ho solo tanti colleghi di lavoro del Ministero della Pubblica Istruzione dove lavoro. Un impiego che, indubbiamente, mi ha permesso di essere autonoma molto giovane tanto da mantenere una casa nella zona di Trastevere. Quindi i miei genitori sono stati l’unico affetto che mi ha dato calore in tutti questi anni. Adesso, senza di loro, mi sento una bimba spaurita. In effetti ci sarebbe Michele, mio fratello, ma non lo vedo quasi mai perché è completamente fagocitato dal suo lavoro di operatore sociale presso una cooperativa dove assiste persone con disabilità. Così, mentre pulisco la tomba dei miei genitori e dispongo i fiori nei vasi, mi abbandono al ricordo dei miei genitori e della mia infanzia.
Mia madre si chiamava Cristina, nacque a Salerno in via Salvatore De Renzi 17, vicino al Conservatorio e alla chiesa di S. Anna. La nonna insegnava matematica a casa e il nonno suonava il corno nell’orchestra sinfonica del Conservatorio. Era la quarta di sei figli, aveva due fratelli, Enrico e Olimpio, e tre sorelle, Giuseppina, Rosa e Amelia. La famiglia non navigava nell’oro così quando mia madre conobbe mio padre toccò il cielo con un dito perché lui era ricco, essendo il nipote del proprietario del più grande negozio di tessuti a Salerno che mio nonno gestiva insieme alla moglie Maria. Mio padre Antonio, però, faceva un altro lavoro, cioè l’assicuratore, ma poté garantire a mia madre un certo benessere tanto da consentirle di dedicarsi alla casa e alla cucina perché entrambi amavano mangiare bene. La loro casa si trovava in via Vigorito numero 6 e qui trascorsi tutta la mia infanzia.
Quando nacqui, dopo circa un anno dal matrimonio dei miei genitori, ci fu una grande festa con i nonni, gli zii e addirittura gente del vicinato che erano perennemente in mia adorazione. Io mi dimostrai subito una gran papona. Nei primi mesi di vita di mia madre mi interessava solo il suo latte. Ed ero sempre tra le braccia di mio padre perché lui era un buono. Quando tornava dal lavoro toglieva il suo completo elegante con tanto di ferma cravatte d’oro, indossava la giacca da camera e mi prendeva in braccio. Io appoggiavo la testa sulla sua spalla e prendevo sonno mentre lui cantava tutto il repertorio di Sergio Bruni. Poi crescendo era sempre mio padre che mi accompagnava a scuola dove ero molto contenta di andare. Ma quando tornavo mi piaceva giocare.
Trai tanti giochi preferivo fare la parrucchiera. Acconciavo i capelli delle mie bambole in mille modi. Poi recitavo il ruolo della commessa. Mi sistemavo dietro al tavolo grande del soggiorno, aprivo le ante della vetrina di un mobile alle mie spalle e mostravo ai clienti immaginari tazze, vasi e bicchieri che loro – sempre secondo la mia immaginazione – compravano. Io li confezionavo in deliziosi pacchetti con nastrino dorato.
Quando diventai più grande mio padre mi portava sempre alle giostre. Di tutti i giochi preferivo le tazze volanti e, dal momento che non erano pericolose, mio padre mi faceva fare tanti giri.
Invece con la mamma le cose andarono diversamente. Fin da bambina l’ho percepita come una mamma molto distratta, così provavo un profondo senso d’inferiorità nei confronti delle mie amiche che consideravo più fortunate, perché più curate dalle loro madri.
Desideravo una madre dall’aspetto più sobrio e invece lei era un’eccentrica: Era bionda ossigenata e vestiva abiti dai colori sgargianti, camice nude look e audaci baby doll. Al mare poi, indossava costumi da bagno da cubista. Era molto bella e per questo molto corteggiata dagli uomini.
Ma lei tutti questi uomini sembrava ignorarli perché diceva che si faceva bella per se stessa. Invece mia madre fu brava quando nacque Michele, mio fratello. Per non farmi ingelosire del nuovo nato mi coinvolse a fargli il bagnetto con le paperelle di plastica nell’acqua. Mi insegnò a cambiargli il pannolino, e a dargli il biberon. Avevo appena sei anni e già mi sentivo come una mamma. Quando Michele divenne più grande diventò il mio compagno di giochi. Passavamo il tempo a giocare ai soldatini. Lui faceva il cowboy e io l’indiana.
Un giorno, però, è quasi successo l’irreparabile.
Io con un bastoncino di legno con la punta rovente colpii l’occhio destro di Michele e quasi lo accecai. Per fortuna non accadde, ma ancora oggi mostra una cicatrice sul sopracciglio destro. Mio padre e mia madre si arrabbiarono molto e ci mandarono a letto senza cena. Con il tempo Michele per me divenne quasi un estraneo. Forse influì il nostro trasferimento a Roma, nel quartiere Africano, che avvenne a causa del lavoro di mio padre.
In questa città, diventati ormai adulti, ognuno di noi, prese la sua strada.
“È ora di chiudere. Vuole restare dentro?”
È la voce del custode che mi riporta alla dura realtà. Così aumento il ritmo dei miei passi verso l’uscita e poi inizio a correre per allontanarmi, al più presto, da questo luogo lugubre. E lascio così, alle mie spalle, i ricordi della mia infanzia che, però, mi hanno dato modo di sentire ancora vivi i miei genitori.
All’uscita dal cimitero di Prima Porta in lontananza vedo venirmi incontro Michele. Impossibile non riconoscerlo a causa della sua andatura dinoccolata ma anche perché indossa sempre i suoi jeans sdruciti e la sua felpa gialla. Una volta vicino mi abbraccia e iniziamo a piangere.
“Sei venuto anche te a pregare sulla tomba dei nostri genitori?”
“Sì Loredana, l’intenzione era quella, ma sono venuto soprattutto perché sapevo di trovarti qui”, poi aggiunge, “Andiamo?”
“Dove?”
“Intanto a fare l’albero a casa di mamma e papà. Dimentichi? È Natale. A nostro padre e a nostra madre farebbe piacere che lo festeggiassimo insieme, a casa loro. Dai, io porto Eliana, la mia compagna. Tu porta qualche collega. E poi la vita continua; ma ti prometto che, questa volta, non ti perdo di vista”
E fa una smorfia da duro come quando, da bambino, giocava a fare il cattivo cowboy.