“Noi qui dentro si vive in un lungo letargo,
si vive afferrandosi a qualunque sguardo,
contandosi i pezzi lasciati là fuori,
che sono i suoi lividi, che sono i miei fiori.

Io non scrivo più niente, mi legano i polsi,
ora l’unico tempo è nel tempo che colsi:
qui dentro il dolore è un ospite usuale,
ma l’amore che manca è l’amore che fa male.”

«Kelly…»
La voce mi giunge attutita. Mi guardo intorno e vedo Mary, l’infermiera di colore che fa sempre il turno di notte. Ha un volto gentile, Mary, mani grandi, con le dita spesse, di persona che ha  sempre lavorato.
So, cosa vuole, vuole la mia chitarra. La tengo stretta, forte, contro il petto.
«Kelly, per piacere, lo sai che me la devi dare».
Lei è paziente e fa il gesto di riceverla nelle sue mani. Esito.
«E’ tardi, gli altri devono dormire, è il regolamento. Domani mattina te la riporterò alla fine del turno, sul comodino come sempre. Dammela, per piacere».
Cedo e gliela passo. Lei fa un sorriso e la prende con delicatezza. Ha mani grandi, Mary, ma delicate. Mi dà in cambio due pastiglie colorate, anzi, una è colorata, l’altra bianca. Aspetta. La guardo.
«Dai, prendile, lo sai che senza non riesci a dormire».
Fissandola negli occhi mi metto in bocca le pastiglie, prima quella rosa e poi l’altra. Bevo un sorso e le mando giù, poi lascio ricadere la testa sul cuscino.
«Brava bambina» mi dice Mary «vedrai che presto…».
Ho uno scatto e mi rialzo di colpo. Mary si rende conto dell’errore e cerca di rimediare.
«Volevo dire che sei brava come…»
«NON PRONUNCIARE MAI PIU’ QUELLA PAROLA!» urlo con una rabbia che non sapevo di avere.
Lei indietreggia, spaventata, la chitarra in una mano e l’altra alzata davanti al petto, come se volesse proteggersi dai miei anatemi.
Pian piano sento le forze abbandonarmi, ricado sul guanciale, ho sonno, sì, sonno, sonno…

L’infermiera esce dalla stanza e chiude piano la porta, poi abbassa le luci, sa che per svegliare Kelly non basterebbe una cannonata, ma non ragiona. Ha il cuore che batte a mille, è stata travolta da quell’ondata di odio puro, anche se sapeva che non era diretta verso di lei… Ma a chi? Al padre, l’archistar troppo preso dal suo lavoro che si era distratto nel momento sbagliato? Alla madre che non aveva resistito alla voglia di un aperitivo? Al destino che l’aveva travolta quando sembrava che niente potesse intaccare la sua felicità?

Con un brivido ripensò alla funzione religiosa a cui aveva assistito con Kelly. L’aveva portata lì perché era di turno ma non voleva perdere la predica di quel giovane sacerdote, così l’aveva messa su una sedia a rotelle con una coperta sulle ginocchia e l’aveva condotta nella cappella. Kelly sembrava assopita, ma un po’ per le medicine che la stordivano e un po’ perché sembrava avesse rinunciato alla vita capitava spesso che assumesse questo atteggiamento. Per la verità Mary aveva anche nutrito la speranza che le parole della Santa Bibbia potessero in qualche modo lacerare il velo che sembrava imprigionare quella giovane donna, così quando il prete prese in mano il libro e lesse: ‘Dal libro di Giobbe, 1, 21: ‘’Nudo sono venuto al mondo e nudo ne uscirò; il Signore dà, il Signore toglie, sia benedetto il nome del Signore’… non si rese conto del lampo d’odio che aveva attraversato gli occhi di Kelly e non fu pronta a fermarla quando si alzò in piedi urlando a squarciagola:
«No! Il Signore è un ladro che cammina nella notte per rubare la vita a chi non può difendersi!| Che sia maledetto nei secoli dei secoli!’
E a suggellare questa bestemmia che aveva lasciato inorriditi i pochi presenti, aveva raccolto un grosso candelabro di metallo e l’aveva lanciato contro il prete con una forza incredibile per una persona dal fisico così provato.
Per pura fortuna il pesante oggetto ruotando nell’aria aveva urtato contro una colonna e il sacerdote era stato colpito solo di striscio alla fronte. Mary era corsa ad aiutarlo, dimenticandosi completamente della malata, e solo quando si rese conto che il danno non era stato grave si ricordò del suo dovere. Si voltò verso la carrozzina, ma Kelly era ricaduta a sedere e stava farfugliando frasi sconnesse.
Per fortuna il prete, anche se scosso, aveva capito e aveva taciuto sull’incidente, altrimenti Mary sarebbe stata licenziata su due piedi, ma non aveva più dimenticato gli improvvisi scatti a cui era soggetta la giovane. Fino a quel momento.

Mi sveglio che è già giorno da un po’. Come al solito ho la bocca impastata, ma so che con il caffelatte della prima colazione questo gusto cattivo passerà. Poi tornerà dopo le pastiglie delle dodici, lo so, ma non aspetto altro che Jude, l’infermiera di giorno, me le venga a portare. E’ dura Jude, deve essere tedesca o svedese, bionda, fredda, sempre distante, non come Mary che è così dolce. Ma fa il suo mestiere, come tutti, e a me interessano solo le pastiglie. Che mi fanno dormire. Fino alla sera, quando è ora di mangiare e di aspettare le pastiglie della notte. Quanto durerà ancora questa vita? Sophie, quanto ci vorrà prima che possa riabbracciarti di nuovo?

«Mi hanno detto che ha ripreso a suonare…».
Mary alzò le spalle. Jude continuò a mettere a posto le medicine nei cassettini dei pazienti.
«Ha una bellissima voce. Sembra che solo in quei momenti riesca a vincere il suo dolore».
Jude completò il carrello e lo lasciò alla collega montante.
«Se venissero a trovarla più spesso forse l’aiuterebbero a ritrovare il contatto con la realtà» disse.
«Una volta venivano» rispose Mary «prima ancora che tu venissi a lavorare qui. Veniva la madre, quella Susan, e il marito…»
«Adesso però non si fanno più vedere».
«La madre ogni tanto passa, chiede informazioni, osserva, ma Kelly non la vuole, urla. Il marito credo che si sia rifatto una vita, sono passati anni dalla tragedia e aveva perso tutto in un istante».
«Già».
Adesso Jude si era tolta i guanti sterili e si lavava le mani «e il padre, come si chiamava? Non era stata sua la colpa…?»
«Kane, si chiamava Kane. Sì, era lui ad essersi distratto, ma sai come sono i bambini, basta un attimo… Di lui non si è saputo più niente, sembra svanito».
«Inghiottito dal ventre della Grande America» sogghignò Jude.
«Non essere cinica!».
«Non lo sono».
L’infermiera si tolse il camice e continuò a cambiarsi a metà strada tra lo spogliatoio e il locale infermeria, girando in mutandine e reggiseno.
«Vestiti!» la redarguì Mary «se passasse qualcuno…».
Jude rise.
«E chi vuoi che passi a quest’ora? Il dottore di guardia? Ti garantisco che non gli dispiacerebbe dare un’occhiata gratis».
Mary tacque, osservando il fisico perfetto della collega, tutto il contrario del suo, appesantito dagli anni e dalla fatica.
«Ciao, a domani» trillò l’altra, uscendo.
«A domani» rispose Mary.
Un’altra notte da far passare, ma prima doveva fare il giro delle medicine. Spinse il carrello nel lungo corridoio e cominciò la distribuzione ai pazienti, un lungo peregrinare tra vite distrutte dall’alzheimer o dalla vecchiaia.
O dal dolore, pensò, sentendo da lontano il suono degli accordi della chitarra di Kelly. Ancora quelle note, sempre quella canzone:

“…perchè basta anche un niente per esser felici,
basta vivere come le cose che dici,
e dividerti in tutti gli amori che hai
per non perderti, perderti, perderti mai.”