Ancora confessioni: non solo spy-story…
Recentemente ho “confessato” la mia trascorsa passione per le storie di spionaggio. Così, tanto per restare in tema di confessioni, ne approfitto per “metterne in piazza” un’altra di passione. Qualcuno potrebbe, magari con ragione, sostenere che mi devo essere montato la testa con questo mio esibire impudicizie letterarie. Che nessuno si preoccupi: è solo che con l’età si finisce (anche perché altre attività scemano di suo… e vi lascio ampia libertà in fatto di malignità) per rimuginare ricordi e tempi andati, sperando di tirar fuori saldi significativi su ciò che la vita ci ha riservato. Con scarsi risultati invero, ma questo non conta.
Lo scaffale cui mi sto avvicinando (con una certa cautela) pesa ancor oggi di più di quello già trattato delle spy story. Col che voglio dire che questa passione non ha perso vigore in me ed anzi, sarebbe più viva che mai se non fosse che sembra aver smarrito già di suo un certo qual smalto nel panorama letterario. Sto parlando del genere cosiddetto “legal thriller”, soprattutto quello di matrice statunitense che ha furoreggiato negli anni ’80-’90.
Del resto – e anche questa è cosa destinata a venir fuori – la passione del giallo (vi rimando per un approfondimento di genere ad un articolo sui gialli di Angelo Fabbri) è talmente radicata nei miei gusti ch’era inevitabile m’interessassi a quella che, alla resa dei conti, altro non è che una sottospecie del delitto e delle indagini poliziesche.
John Grisham e il legal Thriller, ma non solo
Di questo genere l’esponente di maggior spicco è senza dubbio John Grisham: un avvocato di una piccola cittadina che ben presto ha scoperto una forte passione per la scrittura e vi si è dedicato a tempo pieno. Con indubbi risultati se pensiamo che gran parte dei suoi libri son diventati film di successo e gli stessi romanzi han sovente occupato i primi posti nelle vendite statunitensi prima e mondiali poi.
Molto intensi ed avvincenti, come capita spesso, i primi lavori (Il socio, Il Rapporto Pelican, Il cliente, L’uomo della pioggia ed altri); poi, col passare del tempo, una certa perdita di smalto e l’inevitabile ripetitività anche se, va detto, Grisham ha provato ogni tanto ad uscire dallo schema specifico del filone di successo per affrontare temi diversi, con risultati non eclatanti ma di certo decenti.
Ad esempio, curioso è il suo Fuga dal Natale, ove ironizza pesantemente sui condizionamenti sociali della vita di provincia americana (il protagonista tenta, inutilmente, di sfuggire al Natale tradizionale americano per andarsene in crociera ai Caraibi e, alla fine, deve rinunciare a meno di non voler essere considerato un pericolo sovversivo sociale). Peraltro, dal libro è stato tratto un film che, a mio avviso, oltre ad essere banale, stravolge completamente il senso della storia trasformando la “sconfitta” del protagonista in una sorta di trionfo della vita americana e delle sue logiche, intese come fattore positivo.
Altra digressione dell’autore in questione e che m’è parsa significativa è Il professionista, ambientato nel mondo del Football americano e, udite, udite!, addirittura in Italia. Non è un caso che il titolo originale sia Playing for Pizza (originalissimo, non c’è che dire) e che Grisham sia un amante del nostro paese, dove peraltro ha vissuto quando ha scritto il citato libro e non solo.
Altri esperimenti poi hanno caratterizzato la sua carriera letteraria, incluso il tentativo di fare una “incursione” nel campo delle “memorie di famiglia” (La casa dipinta), con risultati non sempre esaltanti ma sicuramente accettabili. Purtroppo, lo smalto venuto meno cui alludevo prima è anche frutto, non lo si può escludere, dell’affidarsi a formule preconfezionate e standard nell’impacchettare il prodotto letterario, dettate più dal mercato che dall’ispirazione o dal talento e, in certi casi, addirittura affidate a schiere di anonimi quanto efficienti “ghost writer”.
È malattia (come raccontava ieri Angel Devil in un suo perfido articolo su Simenon) che si ripete con una certa triste frequenza nell’odierno mondo editoriale, ma questo è un argomento che, oltre ad essere di fatto squisitamente ipotetico per lo scrittore in questione – me ne assumo la responsabilità – ci porta lontano e un bel po’ pericolosamente “fuori pista”.
La costanza di Scott Turow
Chi invece nello stesso ambito a mio avviso non corre rischi del genere ed ha mantenuto un costante livello di qualità è senza dubbio Scott Turow, altro scrittore statunitense, anche lui laureato in legge ed impegnato professionalmente prima come vice-procuratore generale giocando nella “squadra dell’accusa”, poi come avvocato penalista.
Rispetto a Grisham ha prodotto un po’ meno libri, ma di livello, come accennavo, costantemente elevato. La sua visione del mondo giudiziario americano è profonda, frutto indubbio di una intensa partecipazione emotiva e di studi accurati, legata saldamente al fattore umano, l’introspezione accentuata, il punto di vista sovente quello del giudice che, nella sua centralità nei tribunali statunitensi, comporta una responsabilità che forse, ancor più che per la classica giuria, si fa protagonista delle battaglie legali.
I suoi primi romanzi Presunto innocente, L’onere della prova, Ammissione di colpa, nonché i successivi hanno goduto di grosso successo ed alcuni son diventati ottimi film.
Turow, laddove Grisham gioca in modo sottile con le astuzie degli avvocati, privilegia il lato umano della vita di tribunale e quasi sempre mette in mostra un profondo humus culturale, per certi versi più europeo, di persona sensibile alle lotte sociali ed alla storia americana degli anni della contestazione studentesca.
Come dicevo, il volume della sua produzione è relativamente contenuto e forse anche questo gli ha permesso di lasciare inalterato il livello qualitativo delle sue creazioni.
Dice Wikipedia che il suo romanzo di esordio (Presunto innocente) venne scritto da Turow sul treno dei pendolari che quotidianamente lo portava al lavoro. Al di là dell’inevitabile considerazione sulla comodità dei mezzi pubblici americani che evidentemente sono a ben diverso livello dei nostri ove una attività del genere la vedo difficilmente praticabile, trovo significativa questa immagine. Tutto sommato, e questo risulta a mio avviso evidente dalla lettura dei suoi romanzi, per lui la narrazione è una sorta di occupazione per i “ritagli di tempo”, laddove invece il suo interesse primario è e resta la pratica della legge intesa come modello di vita, a volte imperfetto ed incompleto, ma sempre palpitante di slanci e di vitalità.
Personalmente, visto che trovo piuttosto indigesto tutto quanto riguarda gli aspetti “legali” dell’esistenza e, al contempo, sono invece affascinato dalle trame a sfondo “giallo” e dalla narrazione in genere, non posso che invidiare dal profondo dell’anima chi riesce a scrivere un romanzo del genere “nei ritagli di tempo”. E non voglio nemmeno sapere come e quando ha scritto gli altri, tanta è la mia invidia.
Invidia che alla fine è, soprattutto, un modo un po’ disinvolto (e se volete vagamente “letterario”) di apprezzare quello ch’è sempre un lavoro difficile e complesso: raccontare una storia affascinando il lettore. Così, indipendentemente da tutto e tutti, m’inchino ad ambedue gli autori e faccio loro in ogni caso tanto di cappello.