Ho usato un titolo (ab)usato, lo ammetto. E un’etichetta che, per vari e tutti sacrosanti motivi, è stata applicata nel tempo a molti poeti. Direi anzi che ogni poeta che si rispetti, in maniera diversa ha ospitato almeno una piccola zona oscura che lo ha reso in qualche modo “maledetto”.

Ma colui di cui sto cercando di parlare è stato un uomo che ha voluto, con pertinace testardaggine, trasformare la sua vita in un profondo pozzo scuro in fondo al quale, quasi per assecondare un copione scritto controvoglia, ha trovato una morte tanto annunciata quanto tragica e misteriosa. Avvicinarmi a lui è impresa veramente difficile e non solo per il suo enorme spessore culturale e letterario. A rendere tutto più complicato ci sta la scelta tanto coraggiosa quanto suicida di fare del proprio essere un simbolo di martirio.

Debbo dire subito una cosa: in realtà non molto della sua produzione letteraria è ospitata nei miei scaffali. Ad essere sincero, come scrittore m’ha coinvolto solo in parte; come poeta forse un po’ di più, ma i suoi versi non son quelli che mi emozionano più di tanto. Eppure, com’ebbe a dire quell’antipatico di Moravia nel celebrarne la terribile morte, con lui se n’è andato un vero poeta e ne nascono non più di due o tre ogni secolo. Una volta tanto debbo dar ragione al celebrato ed opportunista scrittore della “Noia” e di tanti altri successi concepiti cavalcando l’onda della moda esistenziale.

Sì, Pier Paolo Pasolini è stato un vero grande poeta, ben più al di là di ciò che ha scritto e, forse, detto in vita. Un poeta capace di leggere il mondo in cui viveva oltre, più e meglio di qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca moderna. Tanto che, a rileggere oggi i suoi interventi su giornali e TV dell’epoca, si rimane annichiliti dalla mostruosa capacità di guardare la realtà, di analizzarla, di prevedere dove andasse a parare quanto si snodava sotto gli occhi di tutti. Aveva capito ogni cosa. Aveva intuito quello che nemmeno sospettavamo. Come facesse, rimane per me un mistero che si spiega solo, appunto, col suo essere poeta vero, integro, totale. Di quelli che la vita la mettono in gioco tutta intera per ciò in cui credono e, con un infinito coraggio, non si tirano indietro davanti a nulla. Come, probabilmente, accadde fino all’ultimo, in quella tragica notte in cui si giocò ancora una volta l’intera posta sulle sabbie maleodoranti di Fiumicino, forse per mano per quegli stessi personaggi che aveva amato ed esaltato, salvo chiedersi, ormai inutilmente, chi fossero i mandanti di quella che fu una strage culturale e politica ancor prima che d’un essere umano.

Un essere umano. Questa è certo la parte più difficile da capire del personaggio. Il mio primo anno all’università di Roma fu un anno per nulla facile: da provinciale sradicato soffrivo la metropoli e, difatti, sarei fuggito nel giro di due-tre mesi. Furono mesi solitari e complicati. Una sera – era autunno, quasi inverno, aria piovosa, ma non più freddo di tanto – mi ritrovavo a passeggiare nelle vie del centro, pressoché deserte debbo dire, dietro Piazza San Silvestro. Quasi d’improvviso, per un brevissimo attimo, incrocio una figura strana: un uomo mingherlino e dalla faccia scavata, porta occhiali scuri ed indossa un lungo cappotto scuro (almeno così lo ricordo). Guarda fisso avanti: è una sorta di sfinge ambulante. Sicuramente non mi vede, è immerso nei pensieri e non sembra aver contatto con la realtà.

Era impossibile, all’epoca, non conoscere la figura di Pasolini. Scrittore e regista di successo, era quotidianamente bersaglio della stampa scandalistica e di quella cattolica benpensante (ch’erano ambedue di chiaro stampo fascista) per l’ostentazione della sua omosessualità, dei suoi sbandierati “vizi” e per la sistematica provocazione dialettica. Da bravo provinciale, benché non avessi reali prevenzioni per ciò che lui rappresentava, una qualche pruderie non nego me la smuovesse. Ma l’incontro fu talmente fulmineo e breve che, sovente, mi son chiesto se forse non l’ho sognato. Di lì a pochi anni, l’avrebbero ammazzato selvaggiamente.

Da allora, di lui mi capita spesso di rileggere interventi sui giornali, di vedere sue partecipazioni televisive. Ogni volta basito dalla sua incredibile lungimiranza e, non secondario, dal cogliere il suo profondo amore per la vita e per la gente che magari attaccava senza pietà con le sue analisi spietate e tagliente. Ma, alla lunga, comprendi che tutto questo restava uno smisurato, incredibile amore per la vita e per tutto ciò che è bellezza, armonia, ricchezza spirituale, creatività. Sarebbe sin troppo semplice lasciarsi andare alla facile trivialità con cui la destra più becera attaccava quotidianamente un personaggio scomodo che mai s’è tirato indietro davanti al potere, soprattutto quello che stava modificando radicalmente il modo d’essere della gente di questo amaro paese. Che stava distruggendo la verginità d’un popolo contadino ch’era riuscito, lui dice, a passare tutto sommato indenne dalla retorica tronfia delle marionette fasciste ma che ora rischiava d’essere annullato dalle alchimie subdole del consumismo selvaggio.

Se quella notte si fosse salvato (ma non era possibile, lo volevano morto in troppi), Pasolini sarebbe stato costretto ad assistere a quello scempio che aveva predetto e contro cui non aveva lesinato proclami per mettere tutti in guardia. Per questo non poteva vivere. Perché, parafrasando quello che forse fu il suo acuto più squillante, “lui sapeva”. Lui conosceva i nomi dei responsabili, di chi stava trascinando il paese nel baratro del nuovo fascismo e dell’ignoranza, conosceva i nomi dei responsabili delle stragi con cui si insanguinava il quotidiano per rinnovare il disgustoso balletto del potere ottuso ed arrogante. Sapeva, ma non aveva le prove. Sapeva perché era un intellettuale e gli intellettuali non hanno bisogno di prove, capiscono ben al di là della banale geometria delle chiacchiere. Sapeva perché era pronto a mettere in ballo tutto ciò che era, senza risparmiare una fibra della sua dedizione, senza esitare un attimo nemmeno di fronte allo scempio che sarebbe stato fatto del suo corpo dopo quello quotidiano che veniva fatto della sua anima.

E che, naturalmente, è continuato anche dopo le lodi funebri e le geremiadi più o meno prezzolate. Perché quelli come lui, i poeti veri, puoi anche ammazzarli ma non puoi farne tacere la voce che continua senza posa a perseguitare.