Pochi metri quadri di asfalto, una stradina in salita, due portoni chiusi.Via Albino Albini, un nome ridicolo per una viuzza a cavallo tra Via Cilea e Via Belvedere, due anime di uno stesso quartiere, il Vomero, una sorta di raccordo simbolico tra la borghesia patinata e il proletariato verace.
A ripensarci ora, dopo tanto tempo, sembra impossibile che per questo budello di strada, nell’aria fredda impregnata del fumo di sigarette fumate in fretta, con la spavalda arroganza dell’adolescenza, si siano consumati drammi, discussioni, nati e morti amori eterni, fatto a botte per una squadra di calcio, per una ragazza, per le contrapposte idee politiche. Eppure così è stato e se chiudo gli occhi le immagini tornano limpide e chiare come fosse allora. I volti, le voci, l’eskimo verde o blu di qualcuno, le minigonne timide o ardite, i libri buttati sul cofano di un’auto parcheggiata. Li vedo tutti, quelli che ho visto crescere insieme a me, quelli ritrovati dopo anni, quelli perduti chissà dove.
Avevamo un sogno, avevamo tutti un sogno, magari anche più di uno. Ma quello principale era cambiare il mondo, anche se era solo il nostro piccolo mondo, la nostra vita quotidiana. Il vestire, il parlare, la musica, tutto era un mezzo, uno strumento di lotta per uscire dalla solita vita, dalla solita casa, dai soliti doveri. Un pantalone a vita bassa, un maxi cappotto, il 45 giri a tutto volume nel mangiadischi, i capelli lunghi e le timide barbe incolte, tutto serviva a spogliarci di una immagine di giovani già vecchi, imbalsamati in un finto perbenismo spacciato per benessere. Erano piccole, ma significative rivoluzioni domestiche, si urlava per affermare il diritto alla propria immagine originale e non omologata, si piangeva se la mamma allungava un orlo ad una gonna e con gli occhi ancora rossi la si indossava e fuori dalla porta di casa si rimboccava in vita fino a riportarla alla giusta“cortezza”.
E poi c’era chi guardava oltre, chi sognava più grande, chi aveva letto, aveva studiato e credeva veramente di volere, di potere cambiare il mondo. Non si poneva il problema di quanto tempo ci sarebbe voluto, o se la rivoluzione sarebbe arrivata come in altri paesi, ci credeva e basta. E si appassionava, alzava la voce, litigava, se necessario veniva alle mani con gli avversari, senza paura del sangue, anzi nell’immaginario un po’ romantico del leader e, soprattutto, delle ragazze ogni ferita era un punto in più, oggi si sarebbe detto che era”figo”al pari di un tatuaggio.
Tutti conoscevano tutti e si faceva presto a stabilire chi aveva la stoffa per diventare un leader: dovevi avere il dono della parola, niente incertezze o timidezze, presenza, non necessariamente fisica, ma sicuramente, quando entravi in un’aula, dovevi riempirla con la tua persona, fossi alto un metro e sessantacinque, due peli di barba e voce non proprio baritonale, o un metro e ottantacinque, spalle larghe nel maglione sformato, occhi scuri penetranti e voce profonda. Erano anni che qualcuno ha definito “formidabili”: sì, credo sia l’aggettivo giusto. Il loro essere formidabili consisteva nell’avere al loro interno, nei giorni e nelle notti, un bagaglio assolutamente variopinto e completo. C’era di tutto, veramente di tutto. Nel bene e nel male. E la stessa persona poteva tranquillamente convivere con una propria doppia dimensione di cui una non escludeva l’altra.
Si poteva essere un capo, arringare folle un po’ intimidite dalla veemenza e dalle frasi potenti, trascinare la massa a manifestazioni, gestire il servizio d’ordine della stessa con calma e freddezza, fare a botte con i fascisti, tornare a casa, farsi una doccia e andare a vedere con la ragazza del momento, quella che, contro tutte le previsioni, nonostante non ti abbia dato che qualche bacio, non dimenticherai mai più, a vedere “Love story”. E meravigliarti, mentre le tieni la mano nel buio della sala, di quello che provi, che senti più grande di te e ti fa battere forte il cuore, più di una carica della polizia.
Avevamo un sogno, avevamo tanti sogni che un po’ alla volta sono sbiaditi come le foto di quel periodo, dove si fa fatica a riconoscere un volto, ma si ricorda perfettamente la sensazione provata al suono di una voce, al tocco incerto e innocente di una mano. Il vento della storia ci ha dispersi, separati, violati, stravolti, alcuni hanno retto, altri sono stati trascinati via, lontano, chissà dove.
Eppure nelle immagini incerte dei ricordi riesco ancora a ritrovare i volti, le voci, gli odori, il brivido sottile di un’emozione sconosciuta che oggi come allora riesce a farmi battere forte il cuore. La memoria anche di un solo attimo, di un volto, di uno sguardo ritorna prepotentemente in vita, si riprende uno spazio che forse non ha mai abbandonato. In fondo noi siamo il prodotto di quello che abbiamo vissuto. Fatti, persone, circostanze, volti, voci, sensazioni, si sovrappongono, si amalgamano, si fondono e danno vita alla persona che noi siamo, che noi lo vogliamo o no.
E mentre dietro il pilastro antistante il cancello della scuola rivedo il tuo sorriso, i tuoi occhi profondi e riconosco il tuo passo sicuro, mi tornano alla mente le parole di Francesco Guccini:
“Gli eroi son tutti giovani e belli…”.