Ci son peccati di gioventù di cui non è per nulla facile parlare. Ce ne sono altri che, tutto sommato, magari hanno virulenza di gran lunga minore e tuttavia permangono testardamente nell’animo. Giusto per far capolino una volta ogni tanto, ma mai veramente rinnegati.
M’accade così ancor oggi di ritrovarmi ogni tanto in mano un volume d’un genere in cui, in altri tempi, sono stato divoratore insaziabile: le spy-story. Ad essere onesti non so dire se questa mia passione fosse, banalmente, figlia dei tempi, o la risposta a qualcosa di più profondo. Certo ha preso il via negli anni Sessanta, quando – lo dico per chi ha meno capelli bianchi di me – furoreggiavano i film di James Bond, il famigerato e super invidiato sciupafemmine agente 007, figlio della penna di Ian Fleming. Incontrovertibile che nella fantasia popolare moderna, Sean Connery rappresenti un mito inattaccabile; ma per chi, come il sottoscritto, alla pellicola preferisce la carta stampata, il contatto con i romanzi di Fleming sull’argomento, “indotto” dalla frequentazione delle sale cinematografiche, fu assai deludente. E non poteva essere altrimenti: l’azione (e le belle donne) funzionano alla grande sugli schermi (al tempo solo cinematografici), assai meno sulla pagina stampata.
I libri di due ex spie inglesi
Però fu quasi logico e consequenziale affidarsi ad altri autori che sull’argomento avevano profuso pagine e parole, alcune delle quali, magari non con lo stesso travolgente successo, erano finite anch’esse sui set di Hollywood. Di quel periodo ho raccolto una nutrita e qualificata schiera di autori; di alcuni di loro oggi provo un qualche imbarazzo se devo cercarne una collocazione sugli scaffali odierni della mia biblioteca: infatti al momento sonnecchiano negli scatoloni d’un garage.
Un imbarazzo che, con tutta probabilità, è anche figlio dei mutati equilibri politici ed economici: la caduta del cosiddetto “Orso Sovietico” e la fine dello scontro nucleare tra Est ed Ovest, hanno radicalmente cambiato anche le prospettive di “psicosi mondiale” ch’erano alla base del genere letterario. Il quale, non per nulla, ha perso così gran parte del suo fascino.
Ora, volendo doverosamente celebrare questa mia piccola passione, o ossessione se preferite, ho dovuto scartare tanti nomi ancor presenti nel mio archivio e conservarne solo un paio che resistono – almeno nei meandri della mia anima – alle mode ed ai cambiamenti. Che poi, se vogliamo, sono un po’ l’alfa e l’omega di questo mio percorso nel mondo complicato degli agenti segreti. Infatti il mio primo contatto (al di là del citato Fleming) fu di certo Graham Greene ed il suo immarcescibile “Il nostro agente all’Avana”; mentre l’approdo in qualche modo definitivo fu “La spia che venne dal freddo” di John Le Carrè. E qui dobbiamo subito notare il fatto che, come del resto il già citato Fleming, siano ambedue scrittori inglesi che hanno effettivamente militato nell’Intelligence britannica e, quindi, conoscono molto bene i meccanismi sottili e perversi delle guerre spionistiche, nonché, soprattutto, le relative nevrosi paranoiche.
Se le legate al proverbiale humor anglosassone ecco che ne risulta una miscela speciale, aromatica, gradevolissima e che, se non state ben attenti, potrebbe coinvolgervi vostro malgrado. Almeno per me che, per vari motivi, ho in profonda antipatia guerra, armi e tutta la retorica militare ad essa connessa, quel mondo ove tutto poteva essere il contrario di tutto e nulla era mai ciò che sembrava diventava un nirvana nel quale perdersi lasciando vagare la fantasia e cercando di anticipare le sottili chimiche degli autori.
Va precisato che Greene viene, temporalmente e anche logicamente, prima di Le Carrè. Il secondo anzi, a tutti gli effetti, può essere considerato come un allievo del primo che, se non ha superato il maestro, lo ha almeno eguagliato. Non è un caso che “Il sarto di Panama” di Le Carrè, da cui peraltro è stato tratto un film niente male, si ispiri dichiaratamente a “Il nostro agente all’Avana”.
È inoltre curioso che ambedue gli autori, in qualche modo, debbano la fine della loro carriera di “spioni” nel famigerato IM6 britannico, al doppiogiochista Kim Philby, spia inglese al servizio però anche dell’Unione Sovietica con il quale i due ebbero a che fare e che fu responsabile del crollo delle loro coperture. L’uno e l’altro, com’è ovvio, attingono a piene mani sia alla militanza nei servizi segreti che all’evento in questione, usando con grande talento letterario il lato comico delle storie e, soprattutto, dell’ambiente in cui gli agenti segreti si muovono, così congeniale, per molti aspetti, ad un certo aplomb tipicamente britannico. Anche se in Greene forse la cosa è più sofferta sul piano morale (era un protestante convertito al cattolicesimo) mentre Le Carrè è più distaccato e forse per questo ben più feroce nella sua critica sottile ma inappellabile ai disastri che questo modo di far politica induce sugli equilibri mondiali, soprattutto nel terzo mondo.
Graham Greene ci ha lasciato già nel 1991, mentre Le Carrè è ancora vivente ed attivo seppure la sua produzione sia via via scemata in quantità, ma non certo in qualità a mio avviso. Infatti, in qualche modo, nel tempo John ha trovato in modo elegante la maniera di aggirare la caduta del muro di Berlino che, di fatto, ha chiuso l’epoca delle grandi storie spionistiche, orientandosi verso problemi connessi con la globalizzazione e lo sfruttamento delle risorse del pianeta.
Introspezione psicologica e humor. Uomini, non robot
Quello che resta affascinante in ambedue è la loro grandissima capacità di introspezione psicologica, la sottigliezza dell’humor che attraversa la narrazione, il clima creato ch’è ancor più efficace del banale ricorso all’adrenalina degli scontri fisici e degli inseguimenti vertiginosi sul filo del rischio permanente. Con loro, gli esseri umani non sono macchine tutto muscoli e sesso, ma persone raffinate e sottili, magari forse più crudeli e spietate, ma sempre umane, mai robot.
E quel mondo patinato di glamour, d’immense ed inesauribili riserve di denaro al servizio di menti diaboliche, di schiavi pronti a tutto pur di eseguire gli ordini, così caro al mondo degli 007 con licenza di uccidere e che puntualmente l’affascinate agente di turno sconfigge con le sue mirabolanti ed iperboliche imprese, in compagnia dell’immancabile “bellissima” sedotta dal fascino del nostro eroe, di fatto non si tramuta sempre nel mondo rassicurante in cui il bene trionfa.
Ridimensionati così in una prospettiva forse ancor più drammatica, ma di certo meno favolistica e scontata, gli eroi di Greene e di Le Carrè non sempre vincono. Quando lo fanno resta loro in bocca un non so che di amaro e tragico, come se il mondo, in fondo, rimanga impossibile da salvare del tutto. Quando perdono invece, e questo è in qualche modo ancor più incredibile, si portano dentro una qualche forma di rivincita, una zona sicura che nessun male riuscirà veramente ad intaccare e che ci lascia una debole ma sostanziosa speranza riguardo al futuro incerto dell’umanità in mano ai grandi poteri: che l’uomo cioè, in fondo, non crede del tutto al denaro, alla potenza e all’iperbole del potere.
Che in lui resta sempre un fondo di sensibilità sufficiente a salvarlo dalla sua stessa crudeltà e/o stupidità (fate voi).