Era settembre del 1939, mancavano un paio di mesi all’agognato congedo, che non sarebbe mai arrivato. Appena qualche giorno prima del termine dall’ambito traguardo, era iniziato quel conflitto che si stava allargando a macchia d’olio, in Europa e non solo. L’Italia si manteneva ancora neutrale, ma quei giovani chiamati per il servizio di leva si erano visti prorogare il loro fermo in modo indefinito… in cambio, l’onore di servire la patria.

Era diventato arduo ricevere notizie di quell’amato figlio; la posta arrivava con ritardo, talvolta veniva smarrita. Per ovviare a tali inconvenienti, tutti i giorni Agnese o Augusto si recavano di persona a ritirarla all’Ufficio Postale di Piazza San Silvestro, naturalmente a piedi. Erano tante le carrozze, i tram e i filobus che avrebbero potuto portarli a destinazione, ma era un lusso che non potevano concedersi.

La maggior parte delle volte, tornavano spenti, a mani vuote… ma l’emozione era forte quando, tra le tante buste, ce n’era una indirizzata a loro. Quel premio li ripagava ampiamente della stanchezza, mitigando per qualche attimo benedetto l’ansia che li logorava. La lettera arrivava a casa ancora integra, in attesa che tutta la famiglia si riunisse per rinnovare il rito. Solo allora, intorno ad un tavolo, quella missiva carica di speranza – in cui nessuno era dimenticato – veniva aperta con cura, e letta con la voce tremante e gli occhi lucidi.

Purtroppo, l’assenza di Mario si faceva sempre più pesante e la speranza di rivederlo tra quelle quattro mura – almeno nel breve – diventava ogni giorno più vaga, fino a esaurirsi del tutto il 10 giugno del 1940. L’Italia aveva deciso di prendere parte al conflitto.

Le comunicazioni, da quel momento, si erano fatte sempre più difficili; in pochi potevano accedere alle notizie dal fronte, e le scarse informazioni che trapelavano, venivano distorte e trasmesse indiscriminatamente, attraverso i canali più disparati, fino a dar vita a storie parallele, senza alcun punto di contatto con la realtà, talvolta.

I poveri genitori cercavano di seguire le sorti del figlio, recandosi di giorno in giorno nel cuore della città eterna, presso quell’immenso ufficio postale che, con le sue volte a crociera e le ampie vetrate, rappresentava un perfetto connubio tra modernità e tradizione.  Quel luogo, divenuto col tempo familiare, era stato testimone delle loro angosce e delle loro speranze, dei tanti attimi tristezza e dei rari momenti di serenità. Si sentivano rassicurati dall’aria mistica che ancora ne pervadeva alcuni angoli, primo tra tutti l’antico chiostro – che aveva perso un po’ del suo fascino, a dire il vero – nel quale talvolta sembrava ancora di sentire l’eco delle preghiere dei Monaci Basiliani, ospitati tra quelle mura oltre un millennio prima. 

L’indescrivibile fermento, l’incessante ticchettio del telegrafo, il costante brusio, animavano quell’ufficio, facendolo quasi a vivere di vita propria. Era una specie di microcosmo, dove persone di ogni genere – che non avrebbero mai avuto modo di sfiorarsi altrove – condividevano gli spazi, tollerandosi a vicenda o dando vita a legami più saldi. Non era insolito incontrare un mendicante vestito di stracci alla ricerca di un po’ di calore, o dei signori ben vestiti – con tanto di cappello – che approfittavano del luogo per scambiarsi le opinioni.

Era un punto di ritrovo, un rifugio, una finestra sul mondo… un osservatorio privilegiato che richiamava l’attenzione di molti: lì arrivavano i dispacci da trasmettere agli organi di stampa, si concentravano i comunicati ufficiali da divulgare alla cittadinanza e, attraverso rivoli paralleli, venivano diffuse notizie ufficiose o segrete, sfuggite per caso al controllo. Qui e là si potevano osservare capannelli di persone, che si erano ritrovate tra quella miriade di volti sconosciuti e che conversavano tra loro, condividendo le proprie esperienze e facendo congetture su ciò che stava accadendo. La sete di sapere era tanta, bastava un indizio per animare le discussioni e la speranza in un domani migliore in cui credere.

E c’erano anche esseri solitari, assorti nei propri pensieri, le cui storie trapelavano dai loro sguardi persi o da qualche parola appena sussurrata. Attendevano il proprio turno in silenzio, aspettando con ansia una lettera che non arrivava mai; alcuni, timidamente, chiedevano aiuto per scrivere un messaggio da spedire, o per leggerne uno appena ricevuto.

Il sorriso delle operatrici era pronto ad accogliere con dolcezza chi, dinanzi al telegrafo, desiderasse raggiungere un amico o un parente lontano con un telegramma.

Era lo spaccato di una realtà variegata, animata da una frenesia indescrivibile, custodita tra quelle mura che avevano resistito a secoli di storia e che, se avessero avuto il dono della parola, avrebbero potuto raccontarne di belle…

Non mancava, ovviamente, chi speculasse sulle sofferenze altrui né, viceversa, chi si adoperasse generosamente ad alleviarle. Ci si poteva imbattere in imbroglioni di bassa lega, abili nell’arte della menzogna che, per una misera ricompensa, non si facevano scrupolo di ingannare degli sventurati resi vulnerabili dal dolore; ma, per fortuna, esisteva pure qualche anima pia che si prodigava a dare conforto a quei poveri diavoli in attesa di notizie, solo per il piacere di veder abbozzare un sorriso.

Qualcuno, per arrotondare lo stipendio, prestava il proprio aiuto per districarsi tra la burocrazia o trovare la persona giusta. Ogni servigio aveva un prezzo, da pagare in denaro… o in altro modo, in base all’avvenenza e alla disponibilità di chi si aveva di fronte.  Ad Agnese, sebbene poco a quel tempo fosse rimasto della deliziosa fanciulla di una volta, non erano mancate le proposte – addolcite da promesse allettanti – di individui senza ritegno, ignobili furfanti, biechi portaborse di personaggi potenti. Aveva rifiutato sistematicamente, fedele alla sua educazione e ai suoi ideali. Augusto era rimasto teneramente al suo fianco, per proteggerla ed aiutarla in quell’assiduo pellegrinaggio, incurante dei rischi che affrontavano giornalmente durante il coprifuoco.

Era il mese di novembre del 1942, quando avevano ricevuto l’ultima lettera di Mario che, senza parlarne esplicitamente, lasciava intendere che stesse per prendere il largo per una missione militare da cui non sapeva quando – e se – sarebbe tornato. Il suo tono canzonatorio era sparito, la guerra lo aveva profondamente segnato e, a solo ventiquattro anni, non c’era più traccia dell’innocenza e dell’allegria di un tempo. Le sue ultime parole erano state:

“Cara madre,

mi scuso di essermi fatto attendere così tanto, ma gli ultimi eventi non hanno lasciato molto spazio ai sogni. Sì, perché pensarmi a casa, con tutti voi, è per me oggi la mia dolce chimera, l’unica visione che riesca a riscattarmi dall’amarezza con cui, giorno dopo giorno, mi trovo a fare i conti.

Vedo i segni del tempo sul mio volto, profonde rughe comparse quasi all’improvviso… ed il mio cuore sembra essersi indurito di botto, per resistere agli orrori di questa guerra che non risparmia nessuno, calpestando l’onore e la dignità di tutti noi. Solo poco tempo addietro, i miei compagni ed io non avremmo mai pensato di imbracciare un’arma per usarla contro qualcuno, né saremmo riusciti a immaginare un nemico vero; ancor oggi abbiamo difficoltà a riconoscerlo in giovani come noi che, come noi, uccidono per paura…

Purtroppo, sembra che questa guerra abbia spazzato via il buon senso, i valori morali e l’umanità, lasciando soltanto abbrutimento.  È l’istinto alla sopravvivenza a prevalere su tutto.

Ogni volta che sento una granata, una raffica di mitra, o solo l’odore della polvere da sparo, mi sento raggelare, vengo preso dal panico, da un forte senso di nausea… ed il pensiero corre veloce a Roma, a tutti voi. Non ho paura della morte, solo di finire i miei giorni mutilato e in solitudine, lontano dai miei affetti più cari; e non sopporto l’idea di non essere lì a proteggervi in questo momento così duro.

Non mi sarà facile comunicare prossimamente ma, non preoccuparti, avrai presto mie notizie.

Abbraccia papà e i miei fratelli da parte mia. Dai un bacio alla mia sorellina, e trasmettile la tua forza.

Abbi cura di te, tieni ben salde le redini, non mollare!

Dal canto mio, non smetterò di lottare e di sperare… tornerò.

Ti voglio bene.

Tuo affezionatissimo Mario”

 

 

Mentre questa lettera veniva consegnata ad Agnese, Mario si imbarcava dalla Sicilia su una nave diretta verso le coste africane, ignaro del destino che lo stava aspettando.