Piove. Piove da giorni. L’acqua sferza il tetto metallico del vagone e cola in rivoli gelati lungo i vetri dei finestrini. Un vento freddo, proveniente dalle sterminate pianure del nord, sibila attraverso le fessure mal sigillate, facendo rabbrividire i passeggeri, storditi dallo sferragliare ritmico delle ruote sulle rotaie e stretti gli uni agli altri sulle panche di legno lucidate dall’uso.
Il treno attraversa i territori insanguinati della battaglia della Marna del settembre ‘14, e lo sguardo attonito e curioso dei viaggiatori si sofferma sulle alture coperte dai boschi in cui le truppe francesi e britanniche sono riuscite a bloccare l’avanzata tedesca verso Parigi, cercando di individuare i segni della battaglia.
«Vede» dice un corpulento uomo di mezza età, vestito con un pretenzioso ma logoro completo di velluto, indicando una zona imprecisata nella pianura, «proprio da lì il generale Herr diresse il fuoco dei cannoni da 75 mm del VI Corpo d’Armata che devastarono l’artiglieria tedesca del generale von Mudra.»
Il suo vicino lancia uno sguardo distratto alla distesa di fango oltre il vetro: «Davvero?» dice, e si capisce che lo fa solo per cortesia.
«Sicuro! In poco tempo distrusse la bellezza di sessantasei cannoni da campo e costrinse l’OHL…»
«L’OHL?»
«Sì, OHL, Oberste Heeresleitung, l’alto comando tedesco.»
«Ah!»
«Dicevo, costrinse l’OHL ad ordinare un attacco alla baionetta di tre corpi d’armata, in cui furono decimati i centomila crucchi impiegati.»
«Crucchi?»
«È così che gli italiani chiamano i soldati tedeschi, è un termine dispregiativo.»
«E cosa vuole dire?»
Il primo viaggiatore è preso alla sprovvista: «Comunque» continua, «è stata una grande vittoria!»
L’altro non ribatte. È stanco e stufo degli sproloqui del suo vicino, e il paesaggio gli sembra soltanto una immensa palude, chiazzata qua e là da macchie di verde.
L’uomo che sembra dormire dall’altro lato del vagone, appoggiato all’angolo del sedile, ha sentito tutto. Gli viene da pensare che la giusta immagine per quei campi che scorrono oltre i finestrini dovrebbe essere quella di un grande cimitero, ma la guerra non è finita né vinta dai francesi, e chissà quanti altri uomini sarebbero morti ancora, ma è inutile parlare con i fanatici, specialmente con quelli che le battaglie le hanno viste soltanto da lontano.

Una donna che sembra stremata si alza a fatica e si avvicina all’anziana seduta dall’altro lato del carro ferroviario.
«Nonna, nonna» dice scuotendola, «come state?»
La vecchia non risponde. Respira affannosamente e un filo di bava le cola dal lato sinistro della bocca. La donna si alza in piedi e e rivolge uno sguardo implorante ai suo compagni di viaggio. «C’è un medico tra voi? Qualcuno che sappia qualcosa di medicina?».
Nessuno si muove, ma un’altra donna indica l’ uomo che pare addormentato.
«Credo che lui sia un infermiere» dice.
La donna gli si avvicina e lo scuote, prima piano e poi sempre più forte, ma l’uomo pare non sentire niente.
«Ma cosa ha?» chiede disperata.
L’altra allarga le braccia. «Non lo so, è così da quando siamo partiti. A volte si sveglia all’improvviso, come se non avesse dormito, poi ricade altrettanto rapidamente nel sonno».
«Per l’amor di Dio, signore, si svegli! Si svegli!».
Sotto gli scossoni sempre più forti, l’uomo apre finalmente gli occhi e li fissa sulla donna davanti a lui, ma non muove un muscolo. Impressionata, questa fa un passo indietro, ma poi spinta dalla disperazione gli si inginocchia davanti: «La prego, signore, ci aiuti. Mia madre sta morendo!».
Con estrema lentezza l’uomo si alza e si aggiusta sulle spalle la mantella. Dimostra più di trent’anni, forse quaranta e porta su di sé i segni di una vita trasandata che non ha offuscato del tutto un’antica eleganza. Con gesti misurati si sistema il colletto della camicia, poi si lascia portare dalla donna fino all’anziana malata. Si china su di lei, ne ascolta il respiro, le prende il polso per sentire il battito e le tocca la fronte.
«Non sono un dottore» dice, dopo il rapido esame, «ma questa donna ha la febbre alta e respira a stento. Potrebbe essere una polmonite».
«Dio mio! E cosa si può fare?».
Lui mostra le palme delle mani: sono lisce, senza calli, e contrastano con le unghie sporche di scuro, forse terra, forse colore.
Le mani di un pittore, pensa la donna, o di un nobile decaduto.
«Non lo so, signora. Avrebbe bisogno di riposare al caldo e di un infuso. Forse a Parigi, ma qui…» e allarga le braccia a mostrare l’affollato scompartimento in cui si trovano.
La donna si getta ai piedi dell’anziana e l’abbraccia piangendo.
«Mi dispiace» dice l’uomo, e ritorna a sedersi nel suo angolo, cercando di guadagnare un poco di spazio per sé. Poi si tira la mantella sul volto e pare addormentarsi, cullato dallo sferragliare del treno.
In realtà non dorme, e non perché è stato svegliato all’improvviso o pensa alla vecchia che non sopravviverà per molto. Il suo pensiero va al suo precedente soggiorno a Parigi – quanti anni prima? Dieci, forse. Allora era ancora un ragazzo ed era molto più sicuro di sé. Anche più stupido, naturalmente, ma non è sempre così che sono i giovani? Troppo stupidamente sicuri di sé.

L’uomo seduto al tavolo d’angolo porta un monocolo cerchiato d’oro sull’occhio sinistro, collegato con una catenina dello stesso metallo all’occhiello della giacca. Indossa un completo anonimo, ma di buon taglio, una cravatta grigio scuro sulla camicia bianca. In testa portava una bombetta, che ora è appoggiata sulla sedia tra loro. Quello seduto di fronte a lui è vestito in maniera più comune, come un qualsiasi impiegato dell’Amministrazione. Il tavolino è discreto, come è molto discreto il bistrot nel XVIII arrondissement in cui si trovano, ma il primo uomo è nervoso, lo si capisce dal modo in cui sembra friggere sulla sedia, cambiando di frequente posizione.
«Non capisco perché ha voluto che ci incontrassimo qui!» esclama, stizzito.
«Lei non si deve preoccupare» risponde l’altro, calmo, «sono io a decidere tempi e modi degli incontri.»
«Ha almeno dei risultati?» chiede quello con il monocolo.
Il suo interlocutore gli passa attraverso il tavolo un giornale ripiegato in quattro. Quello lo apre cautamente e sbircia un foglio che è nascosto all’interno.
«Tutto qui?»
«Non abbia fretta: prudenza è pazienza.»
«Lo riferirò a chi di dovere!»
L’altro ignora quella che vorrebbe essere una minaccia.
«Deve sempre vestirsi come un burocrate tedesco in trasferta?» chiede invece.
Il primo fa uno scatto e quasi gli cade il monocolo. Si porta le mani alla cravatta.
«No, non è la cravatta: è tutto il resto.»
«Quando ha finito di divertirsi le vorrei ricordare che…»
Questa volta l’altro uomo si sporge in avanti sul tavolo, fino a sfiorare con il volto quello del suo interlocutore: «Ognuno è responsabile del proprio lavoro» dice, e la sua voce è tagliente come una lama, «ma si ricordi di non mettersi mai sulla mia strada.»
L’altro fa istintivamente per allontanarsi, ma è tenuto saldamente per il bavero. Dopo un attimo molla la presa e lascia che l’uomo si ricomponga, poi, dopo un ultimo freddo sguardo si alza.
«Guten Abend» sussurra ironico, tanto piano che nessuno lo sente.
Prima che il cameriere ritorni, va alla cassa a pagare le consumazioni. Ascolta soddisfatto il padrone dirgli l’importo in un francese del sud, quindi si dirige all’uscita e si sofferma sulla porta. Piove. Lontano, confusa nella foschia, si erge la bianca mole della basilica del Sacro Cuore. L’uomo che si fa chiamare Augustin – che strano nome si è scelto! – fa un passo verso il marciapiede e in un istante è sparito nel nulla.

Gli altri passeggeri distolgono la loro attenzione, infastiditi, e ritornano al loro inquieto torpore. Una ragazza, forse una bambina, che sembra viaggiare da sola, ha osservato la scena con occhi che paiono persi in qualche sogno o ricordo. L’uomo riapre gli occhi e guarda senza curiosità la stracciata umanità della terza classe intorno a lui, mentre il treno continua la sua lenta corsa spandendo un denso fumo grigio che si allarga basso dietro l’ultimo vagone sulla pianura intrisa di umidità.
Lontano, all’orizzonte, cominciano ad apparire le prime avvisaglie della periferia di Parigi, annunciate da una coltre di caligine che staziona sulla grande città.