«Papà, ma cosa stai facendo?»

Erano mesi che il padre non si muoveva, se non con l’aiuto ed il supporto di qualcuno. Ed ora, tutto insieme, era riuscito da solo ad alzarsi dalla poltrona in cui trascorreva buona parte della sua monotona giornata, s’era appoggiato con le mani allo schienale di una sedia e, con le braccia tese usando la stessa come fosse un deambulatore su cui reggersi, era avanzato fino alla porta della stanza ogni volta spostando il suo improvvisato “attrezzo” di qualche centimetro. Una distanza considerevole, pensò Sandro, praticamente da record del mondo se mai fosse esistita la specialità dello spostamento con sedia. C’era di che restare allibiti.

Il padre farfugliò qualcosa che Sandro non riuscì a capire. Oltre a quella che, almeno fino a quel momento, era stata una forzata immobilità, l’uomo aveva difficoltà di parola e sovente i suoi discorsi scemavano subito, dopo due tre vocaboli, per perdersi dietro uno sguardo smarrito e devastato dalla paura. L’ultimo ictus, quello che l’aveva segnato, aveva lasciato segni pesanti sul corpo e sull’anima di un uomo che fino ad un certo punto era stato l’immagine della forza e della voglia di vivere. Quello che restava era una specie di larva tenuta in vita dalle medicine. Se quella si poteva chiamare vita ed in proposito Sandro nutriva ampi dubbi ma le nostre “leggi morali” a quanto pare non riescono ad andare al di là dell’appellarsi al banale battito del cuore. Così, finché questo organo dentro al petto tira avanti a pompar sangue, magari in barba a qualsivoglia altra manifestazione, sei ufficialmente vivo. Poco conta che tu dipenda in tutto e per tutto da altri, se non da una macchina addirittura, e niente vale che tu non abbia più alcuna manifestazione reale di vita, che nulla in te s’associ più con la dignità umana: per la legge sei vivo, e tanto basta.

Così anche suo padre, ormai da tempo, sembrava aver perso qualunque contatto con la realtà e quel suo vivere era niente più che funzionare come una sorta di sacco nel quale transitavano cibi e bevande per essere trasformati in disgustosi rifiuti. Di cui qualcuno doveva, ovvio, occuparsi. Per questo ora l’improvvisa manifestazione di attività paterna, pur nella sua assurdità, lasciava sgomento Sandro. Già da un po’, infatti, oltre ai bisogni elementari il padre non mostrava altri segni di vitalità. Provò allora a ripetere la domanda, magari cercando di essere meno sferzante: «Papà, cosa stai facendo?». Che già fosse stato capace di alzarsi aveva del prodigioso, che poi potesse muovere la sedia non lo avrebbe mai e poi mai pronosticato. Lo sguardo del padre incrociò il suo, quasi come si accorgesse solo in quel momento della presenza del figlio. Ancora qualche farfuglio incomprensibile poi un cenno appena abbozzato: con il mento indicava la porta del bagno. «Vuoi andare al bagno?». Un vago cenno di assenso. Con un sospiro e con tutta la dolcezza di cui era capace: «Non c’è bisogno, papà… hai il pannolone. Fai tranquillamente, poi ci pensiamo…». Gli occhi del padre si velarono per un attimo, poi comparve un lampo di rabbia e di frustrazione. Di nuovo, con quale forza non era dato saperlo, la sedia venne alzata di pochissimo e poi sbattuta sul pavimento. Il cenno del mento confermò perentoriamente l’indicazione del bagno.

Aveva un senso contraddirlo ancora? A che pro, si chiese Sandro… quand’anche fosse stato l’ultimo sforzo quello del padre, non era più dignitoso andarsene in quel modo, con un cenno ancora di vitalità, piuttosto che annegare nel mare vacuo del nulla in cui ogni giorno sprofondava sempre di più?

«Vien, ti aiuto papà», fece Sandro afferrandolo per un braccio ed infilando l’altra mano sotto l’ascella del padre. La carne di lui era più fragile e delicata d’un vetro di Murano.

A piccolissimi ed esitanti passi coprirono un paio di metri nel del corridoio. Davanti alla porta del bagno il padre si fermò e lo guardò interrogativamente. Sandro gli aprì la porta mentre cercava di capire come risolvere quella situazione senza ferire troppo la sensibilità paterna. A volte gli toccava di dover fare il duro con lui e ci stava male cane dentro. Ma non poteva evitarlo visto che il peso di quella situazione ricadeva tutta sulle sue spalle e sovente non c’era né tempo, né spazio per andar dietro alle bizzarrie della mente devastata dell’uomo che lo aveva generato.

Entrarono dunque nel piccolo bagno di servizio, sempre appiccicati e con le mani di Sandro a sostenere la mole paterna. Ma invece di dirigersi verso il water, come si sarebbe aspettato, il padre s’accosto al lavandino dove, sempre sostenuto da Sandro, afferrò la saponetta. O meglio quello che ne restava: in pratica una sottile scaglia di sapone.

«Vuoi lavarti le mani?», chiese Sandro.

Il padre scosse la testa quasi con stizza. Ancora quello sguardo sofferente e carico di rimprovero: non riuscire ad esprimersi doveva ferirlo oltre ogni limite. Sandro cercò d’usare un tono pacato e dolce: «Cosa vuoi fare allora papà?». Dalla bocca del genitore uscirono, con grande sforzo, suoni confusi. Parve però a Sandro di cogliere una vaga ed incerta parola. «La bacinella? Vuoi una bacinella, papà?». Quasi una lacrima di gratitudine sembrò appannare gli occhi del vecchio: che qualcuno lo capisse era come se, in fondo, non tutto fosse perso. Sandro stava giusto per chiedere a cosa dovesse servirgli; ma prim’ancora d’aprir bocca si rese conto della stupidità della domanda e riuscì a frenarla.

Fece appoggiare il padre con ambedue le mani al lavandino poi, continuando a sostenerlo per l’ascella con a mano sinistra, con la destra aprì gli sportelli dell’armadietto dall’altro lato del bagno e si mise a cercare qualcosa che somigliasse a quello che gli era stato chiesto. Gli capitò tra le mani una piccola bacinella, azzurra, vecchia e persino incrostata dal calcare. Ed allora capì, cosa volesse suo padre.

In altri tempi, quando era bambino ed in casa c’erano pochi soldi, bisognava risparmiare su tutto. Così, quando una saponetta diventava troppo sottile per essere maneggiata, veniva messa a bagno in quella bacinella per un po’ di tempo e, una volta adeguatamente ammorbidita, la si appiccicava a pressione sulla saponetta nuova. Evidentemente suo padre aveva continuato con quella abitudine anche dopo che Sandro se n’era andato da casa e addirittura aveva gelosamente conservato la vecchia bacinella.

Trovarsi tra le mani quella sorta di reperto archeologico provocò in Sandro un pauroso tuffo nel passato, in tempi strani, diversi, difficili per molti versi, della sua adolescenza. Se n’era andato presto da casa, aveva trovato una strada lontano dalla famiglia e s’era riavvicinato solo dopo che il padre era rimasto vedovo. La malattia poi aveva completato una sorta di ritorno all’ovile che, nei fatti, era solo frutto di necessità. C’era chi si occupava del padre: badante, fisioterapista, medico. E con la sorella, Sandro divideva la necessità di presenziare e mandare avanti quella che in effetti era una sorta di piccola azienda. Che nulla produceva, se non una parvenza ridicola di vita, una sopravvivenza vegetativa e frustrante, per il padre innanzi tutto. Ma anche per loro figli. Fortuna che la vita ad ambedue avesse dato le possibilità economiche di sostenere quella sorta di ambaradan quotidiano. Ma nulla li aveva preparati alla sottile tensione che divorava le remote memorie in ogni piccolo gesto.

Per un verso c’era di che sorridere: che quell’antica usanza avesse fatto da molla scatenante per una sorta di resurrezione fisica paterna era, quanto meno, strabiliante. Mentre Sandro porgeva al padre la bacinella e lo aiutava a metterci un po’ d’acqua, per poi farci cadere la saponetta consunta, cercò negli occhi di lui quale potesse essere, in quel momento, il suo rapporto coi gesti che compivano. Si chiese se fosse cosciente di quella sorta di rigurgito del passato. Ma non c’erano risposte nel suo sguardo, di nuovo assente. Quando Sandro gli chiese dove doveva appoggiare la bacinella non ci fu alcun segno d’aver capito.

Il ritorno alla poltrona fu una sorta di calvario: dovette sorreggere il vecchio e spingerne i passi con le gambe. Un’immane fatica che lo lasciò spossato quando infine riuscì a rimetterlo davanti alla TV. Venne l’ora di cena e cercò di farlo mangiare, inutilmente. Poi passò Sergio, il fisioterapista che lo puliva ed accudiva prima di andare a letto ed al risveglio del mattino. Sandro gli raccontò dell’episodio e convennero che la cosa aveva dell’eclatante. Probabilmente ambedue pensarono che potesse essere una sorta di canto del cigno, ma nessuno dei due lo disse.

Quella notte toccava a Sandro dormire nella stanza accanto. Un paio di volte s’alzò nella notte per controllare il padre, trovandolo che dormiva profondamene. Al mattino però, s’accorse subito ch’era freddo e non respirava più.

Qualche ora appresso, una volta espletate tante formalità, dopo ch’erano venuti quelli delle pompe funebri a sistemare il corpo e la camera ardente, aspettando che iniziasse la processione di parenti ed amici, Sandro entrò infine in bagno e, alla vista della bacinella, finalmente riuscì a piangere.