Capitolo diciannovesimo

La vita di Caterina era una serie continua di alti e bassi: appena cominciava ad adattarsi a una nuova situazione, dopo brevi periodi di tregua, altre batoste.
L’ultima era stata la sentenza di un Professore milanese dove l’avevano accompagnata Tiziana e Dodo.
Le sue ginocchia non reggevano più, non avrebbe potuto più camminare, bisognava intervenire il più presto possibile.
L’operazione per la sostituzione dell’articolazione del ginocchio con una protesi totale non era molto conosciuta in Italia.
Elviana, cara amica di Caterina dai tempi della scuola e ottima fisioterapista, le consigliò un ospedale di Lione, dove avrebbe potuto avere il meglio.
Cominciarono i viaggi Genova-Lione: alla prima visita l’accompagnarono i soliti vicini-amici con Marisa.
Fu quasi un viaggio di piacere, fecero tappa ad Annecy e dalla finestra Caterina guardava con invidia Dodo che correva intorno al lago.
Il Professore conquistò subito Caterina con la sua professionalità, la sua fermezza e la sua gentilezza.
L’intervento riuscì perfettamente, la sanità francese era anni luce avanti a quella italiana: l’ospedale sembrava una clinica di lusso, il rispetto per il malato una cosa fondamentale, non eri né un numero, né nonno o nonna, ma il signore o la signora tal dei tali.
Chi entrava nella stanza, infermiere o dottore che fosse, si presentava e spiegava il motivo della visita.
Al confronto con i ricoveri negli ospedali italiani, quella era sembrata una vacanza.
Caterina rientrò a casa con un’articolazione di titanio e plastica al posto del suo ginocchio: le sembrava un po’ strano, un pezzo di ricambio che aveva una scadenza e che doveva imparare a considerare parte di sé.
A casa Twin la aspettava più affettuosa che mai e preoccupata per la lunga lontananza della sua amica.

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New York offriva tutto ciò che si può desiderare: dalla cultura allo sport, dal divertimento alla religione, dai parchi stupendi alle costruzioni più avveniristiche.
L’aspetto che maggiormente attrasse Wendy fu la varia umanità così ben amalgamata; Nelson le spiegò che non era così per tutto il resto dell’America dove c’erano ancora molti pregiudizi.
Gli “Harlem’s Seven Boys” suonavano in vari locali o a Broadway o al Greenwich Village.
Per Wendy fu facile trovare degli ingaggi in quella miriade di locali dove si faceva musica, però lei non aveva più tanta voglia di esibirsi in pubblico.
Preferiva starsene nel loro loft a scrivere nuovi testi per poi musicarli con l’aiuto di Nelson; erano canzoni originali nelle quali si fondevano i vari stili che Wendy aveva assimilato in quegli anni.
Inoltre voleva godersi la vita matrimoniale: cucinava per Nelson nella microscopica cucina che era nel loft, si occupava delle piante nel cortile e o con Nelson o da sola ricominciò a correre.
A New York ciò era di moda, tutti facevano jogging, al Central Park, al Riverside Park, sul ponte di Brooklyn.
Spesso alla domenica andavano a trovare i genitori di Nelson.
Abitavano nel Queens, una zona residenziale, in una villetta con un bel giardino dove organizzavano barbecues ai quali partecipava tutta la famiglia.
Nelson aveva un fratello e una sorella entrambi sposati con due figli. Erano ragazzini simpatici, incuriositi dalla nuova zia che, pur non avendo molta esperienza di bambini, legò subito con loro.
Dentro di lei c’era sempre la monella che con Caterina giocava sulle strade e sulle spiagge di Sestri.
Così mentre lei insegnava nuovi giochi, loro le davano guantone e mazza da Baseball per addestrarla in quello sport del quale tutti erano tifosi.
Infatti la domenica terminava allo Shea Stadium, modernissima sede dei Mets, a fare il tifo per la squadra dei loro sogni.

continua……